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RISORSE VIRTUALI E UGUAGLIANZA TERRITORIALE
Commento al libro di Carlo Ratti
Corinna Morandi
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Dalla lettura del libro che Carlo Ratti ha scritto con Matthew Claudel - La città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano (Einaudi, 2017) - mi sono venute molte sollecitazioni, riflessioni, rimandi ad altri testi. Ho selezionato tre spunti che partono dal mio interesse specifico - in quanto architetto urbanista - per la relazione tra la diffusione delle nuove tecnologie digitali e il cambiamento dei modi d'uso, ma anche della forma, dello spazio, a scale diverse: da quella del quartiere a quella territoriale.
Un primo tema ha a che fare con la metodologia del progetto e con le relazioni mutevoli tra attori e destinatari del progetto stesso. Tema che rimanda alla questione più generale della sovrapposizione/confusione dei ruoli degli attori - consentita dalla diffusione delle nuove tecnologie - che rende ad esempio sfumata la divisione netta tra produttore e utilizzatore nei laboratori di produzione digitale, oppure tra consumatore e lavoratore negli spazi ibridi, o nel settore del retail, dove il commercio elettronico o la diffusione dell'uso della realtà aumentata consentono di saltare - o di modificare - una serie di passaggi della catena della distribuzione.
In La città di domani Ratti riprende dal suo precedente libro - Architettura Open Source. Verso una progettazione aperta (Einaudi, 2015), in realtà un'opera collettiva, costruita con una tecnica additiva - il tema del possibile diverso ruolo dell'architetto/progettista nella società iperconnessa, proponendo la figura del cittadino/progettista. In Architettura Open Source - anche attraverso la ricostruzione dei tentativi, a partire dagli anni Sessanta, di coinvolgere l'utente nella progettazione e di utilizzare metodi di programmazione (cita ad esempio Negroponte che parla dell'architetto come intermediario, creatore di schemi aperti) - Ratti era arrivato a proporre la progettazione collaborativa consentita dalla rete e la figura (collettiva) dell'architetto "corale", la cui "prima cruciale responsabilità è quella di strutturare il processo di coinvolgimento di vari soggetti: dare inizio e porre fine alla collaborazione […]. L'architetto corale - scriveva Ratti - orchestrerà azioni e interazioni, più che creare oggetti" (pp. 119-120).
In La città di domani si riprende, mi sembra in parziale continuità, la questione, accentuando l'aspetto della collaborazione bottom up, descrivendo il processo con cui i "progettisti cittadini" attraverso varie piattaforme potrebbero iniziare a "hackerare la loro città" (p. 28), attraverso il "mix straordinariamente produttivo di esperti, dilettanti, imprese e nuovi attori". Su queste affermazioni si apre la riflessione sulle grandi opportunità che oggi si possono sperimentare con l'approccio bottom up, sia nella produzione e condivisione di informazioni, sia in vere azioni progettuali costruite attraverso processi partecipativi. Questo naturalmente comporta dei rischi: Ratti riconosce che "consentire la partecipazione dei cittadini prevede vulnerabilità, minor controllo e possibilità di errore…". Non come rimando diretto, ma evocando secondo me questioni analoghe, ad esempio Ezio Manzini (che ha molto lavorato sul tema della co-progettazione), afferma nel suo Politiche del quotidiano. Progetti di vita che cambiano il mondo (Edizioni Comunità, 2018) , che per "rendere probabile l'esistenza di una democrazia progettuale" è necessario sviluppare anche le infrastrutture sociali, necessarie quanto le infrastrutture fisiche: ad esempio, se è vero che i servizi online rendono le attività di co-progettazione e co-produzione accessibili ed efficaci, servono tanto le arene fisiche e virtuali, dove le persone si incontrano e decidono gli obiettivi e le cose da fare per raggiungerli (…) quanto "i beni comuni sociali come la fiducia e i valori condivisi…" (pp. 178-179).
Termino questo primo punto sul cambiamento della figura del progettista con il riferimento molto forte, che sta alla base di La città di domani, all'utilizzo dello scenario di futuri possibili - futurecraft (arte del futuro) - come metodo integrato al processo di progettazione, utilizzato per la sua forza di "provocazione", quindi non necessariamente riferibile alla realizzabilità, ma in grado, "per il semplice fatto di essere stato proposto, esplorato e discusso" di determinare un impatto. Lo scenario è utile per esplorare il cambiamento, la modificazione per tentativi. Ancora rimando a Architettura Open Source, in cui si critica la figura dell'architetto "visionario" - di cui si dice che è necessario distruggere il mito - che ha perso il contatto con la vita vera, annientando la possibilità di influire su di essa. In questo vedo una contraddizione tra i due testi di Ratti: in cosa si differenzia la costruzione - criticata - della visione dell'architetto visionario dal futurecraft?
Una seconda riflessione suscitata dal libro riguarda gli effetti legati allo scenario dello sviluppo dello spazio iperconnesso della città di domani, dove le tecnologie integrate trasformano il modo di abitare. Nel testo si delineano i cambiamenti indotti dalle tecnologie digitali nella mobilità, nell'uso dell'energia, nella produzione. "Lo spazio (fisico) in sé è altrettanto cruciale […]. I sistemi in rete - scrive Ratti -, lungi dal neutralizzare lo spazio urbano, costituiscono una nuova interfaccia con il mondo fisico" (p. 47). La trattazione si articola intorno a due concetti chiave, in opposizione solo apparente: la connettività e la prossimità. Mi soffermo sulla prossimità, concetto non scontato declinabile in diverse aggettivazioni, in parte legate anche alle possibilità di interazioni virtuali. Tra gli altri, Ron Boschma - nel suo articolo Proximity and innovation. A critical assessement ("Regional Studies", 2005, n. 39(1), pp. 61-74) - ne ha individuato diverse tipologie: la prossimità geografica, istituzionale, organizzativa, relazionale e cognitiva. Sia un eccesso che un difetto di forme di prossimità, possono essere fattori negativi nell'alimentare i processi di apprendimento, con tutte le ricadute note su un'economia fondata sempre più sulla conoscenza. Nel cambiamento legato alla diffusione della connettività le varie forme di prossimità contano, in particolare la prossimità relazionale e la prossimità cognitiva, non necessariamente legate a quella geografica. Ratti parla di "forme di produzione relazionale" già in Architettura Open Source e nel capitolo di La città di domani dedicato alla Conoscenza si diffonde nell'esempio dei FabLab, i laboratori di fabbricazione digitale, che si appoggiano alle comunità locali ma sono connessi in reti di conoscenza e innovazione di scala mondiale. FabLab e altri nuovi luoghi del lavoro legati allo sviluppo dell'economia della condivisione (co-working) giocano un ruolo di innovazione rilevante, ma ancora economicamente marginale. I FabLab (dato 2018, ma piuttosto mobile) sono 130 in Italia, concentrati in prevalenza nelle aree urbane e metropolitane, come a Milano o in Emilia, dove sono anche oggetto di politiche pubbliche di qualche efficacia.
Su questo tema faccio riferimento a un recente testo di Pierre Veltz, ingegnere e sociologo, come tiene a definirsi nel suo profilo biografico, La société hyper-industrielle. Le nouveau capitalisme productif (Seuil, La République des Idées 2017) che tratta della trasformazione in corso delle reti economiche e degli spazi del lavoro. I concetti che emergono sono legati alla integrazione delle opportunità offerte dalla connettività con la fisicità e i caratteri dei "tessuti" (parola da urbanisti e da sociologi) territoriali. Veltz usa alcune definizioni che mi sembrano a questo proposito molto efficaci, parlando di "économie rélationnelle de la proximité" come supporto agli ecosistemi della conoscenza e di "compétitivité rélationnelle" come opportunità/sfida della rivoluzione digitale. Approfondisco, attraverso Veltz, l'idea di ecosistema, termine molto alla moda e usato in contesti diversi, che rimanda alla presenza di strutture open, decentralizzate, composte da un mix vario di attori in interazione costante, ecosistema che si sviluppa grazie a una continua interazione di collaborazione e competizione. Per l'Italia in particolare, questo rimanda alla stagione dei distretti industriali, ma negli ecosistemi di cui parliamo oggi, a differenza di quella storia, la lista degli attori è aperta e la loro varietà (nelle attività di produzione, formazione, ricerca) è ampia e le presenze o interazioni possibili sono multisettoriali.
L'altro spazio territoriale in cui connettività e prossimità cooperano sono gli hub/nodi delle reti, che si mettono in relazione a livello globale e sono ancorati nello spazio locale: dalle metropoli-hub, agli hub della mobilità, agli hub della conoscenza, come i grandi campus di università e ricerca, come potrebbe essere nello scenario in campo il progetto di un grande campus della ricerca nel sito del post Expo. Il grande campus universitario è un hub (nodo/polo) di una rete ma è anche un ecosistema, se ha le caratteristiche dell'apertura, della varietà delle presenze: università, ricerca, imprese, start up.
Nel libro La città di domani, "città" non è termine usato per alludere genericamente alla densità degli abitanti. Gli scenari proposti sono indirizzati all'urbano, animati dai "cittadini attuatori dello sviluppo urbano". D'altra parte nelle ricerche del Senseable City Lab risulta che "gli individui che comunicano in forma digitale tendono anche a incontrarsi fisicamente. Le persone desiderano il contatto con altre persone, vogliono stare in un bel posto, vogliono essere al centro degli avvenimenti. In breve vogliono vivere in città!" (p. 16). Il "ritorno al centro", evocato a cavallo del nuovo millennio da Richard Rogers nel rapporto Towards an Urban Renaissance, è documentato negli studi di geografia e scienze regionali che trattano i processi di agglomerazione e polarizzazione e ne descrivono i fattori economici, di accessibilità, sociali.
Tali processi stanno producendo o acutizzando ineguaglianze e squilibri - territoriali, economici, di accesso alle risorse, nel mercato del lavoro - dalla scala globale alla scala regionale. La grande innovazione tecnologica, con i suoi effetti sulla creazione di maggiore valore e maggiore competitività nei nodi urbani, rischia di accentuare fortemente questi squilibri. Dobbiamo dunque seriamente chiederci se i poli urbani ridistribuiscono la ricchezza verso i territori in cui sono collocati e ne alimentano la crescita. Veniamo da una tradizione in cui centro e periferia hanno spesso agito in modo sinergico (nel caso di Milano, la relazione fertile descritta da Carlo Cattaneo, fino ai fenomeni di spill over dalla città all'area metropolitana). Per Veltz, "La globalizzazione e la connettività oggi minano queste sinergie legate alla prossimità" (p. 115). Le risorse che erano fornite dai territori prossimi sono oggi disponibili nel mercato globale: dal mercato del lavoro alla distribuzione con l'e-commerce. Ma l'Italia in particolare è fatta di città grandi medie e piccole, di territori, di aree interne - su cui si è focalizzata l'attenzione della Strategia nazionale per le aree interne -, che stanno vivendo gravissimi fenomeni di spopolamento.
Allora immagino uno scenario, un'operazione di futurecraft alternativa, legata alle potenzialità della rivoluzione digitale, non solo per ricentralizzare nei poli urbani forti, ma per distribuire nel territorio regionale le opportunità di accesso alle risorse virtuali, di innovazione progettuale bottom up, di supporto al locale (non al localismo). Ho cercato di ragionare su questo tema con l'ipotesi della transizione dalla smart city alla smart region (dalla città connessa al territorio connesso) e all'integrazione delle reti tra cose (Internet of things) con le reti tra luoghi, dove i nodi delle reti relazionali non sono solo i grandi hub, ma anche i nodi minori, co-progettati e co-prodotti, magari proprio con l'approccio open e collaborativo suggerito da Ratti.
Corinna Morandi
N.d.C. - Corinna Morandi, già professore ordinario di Urbanistica del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano - è vice-presidente dell'Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della provincia di Milano. Per anni ha insegnato nel laboratorio di Town Planning and Urban Design e ha sviluppato attività di ricerca sui temi del cambiamento urbano, indagando in particolare gli effetti spaziali delle trasformazioni dei settori economici della distribuzione commerciale e dei servizi. Più recentemente ha lavorato sul rapporto tra diffusione delle nuove tecnologie e innovazione nelle pratiche d'uso della città e del territorio.
Tra i suoi libri: con Patrizia Gabellini e Paola Vidulli, Urbanistica a Milano: 1945-1980 (Edizioni delle autonomie, 1980); con Patrizia Gabellini (a cura di), Progetto urbanistico e sinistra a Milano negli anni '70 (FrancoAngeli, 1985); con Maurizio Boriani e Augusto Rossari, Milano contemporanea. Itinerari di architettura e urbanistica (Designers riuniti, 1986; Clup, 2006; Maggioli, 2007); con Agata Bazzi (a cura di), Morfologia e progetto per le trasformazioni urbane (Clup, 1986); con Giuseppe Di Giampietro, Trasformazioni territoriali e infrastrutture di trasporto. Alcuni casi studio nell'area milanese (Clup, 1989); (a cura di), I vantaggi competitivi delle città. Un confronto in ambito europeo (FrancoAngeli, 1994); con Paola Pucci (a cura di), Prodotti notevoli. Ricerca sui fattori di successo dei progetti di trasformazione urbana (FrancoAngeli, 1998); con Valeria Erba e Marina Molon, Bovisa. Una riqualificazione possibile (Unicopli, 2000); con Valeria Erba e Carlo Molteni, Bovisa. Materiali per il progetto urbanistico (Libreria Clup, 2003); (a cura di), Il commercio urbano. Esperienze di valorizzazione in Europa (Libreria Clup, 2003); Milano. La grande trasformazione urbana (Marsilio, 2005); con Silvia Gullino (a cura di), Milano. Esercizi di urban design (Libreria Clup, 2006); con Grazia Brunetta (a cura di), Polarità commerciali e trasformazioni territoriali. Un approccio interregionale (Alinea, 2009); con Andrea Rolando e Stefano Di Vita, From smart city to smart region. Digital services for an internet of places (Springer, 2015); con Stefano Di Vita, Mega-events and legacies in post-metropolitan spaces. Expos and urban agendas (Palgrave MacMillan, 2018).
Sui libri di Corinna Morandi, v. in questa rubrica: Alberto Clementi, In cerca di innovazione smart (18 maggio 2018).
Sul libro di Carlo Ratti - di cui si discusso alla Casa della Cultura il 22 maggio 2018 nell'ambito della VI edizione di Città Bene Comune, v. anche i commenti di: Giampaolo Nuvolati, Tecnologia (e politica) per migliorare il mondo (13 luglio 2018); Alberto Clementi, Un nuovo paesaggio urbano open scale (12 ottobre 2018).
P.S. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 23 NOVEMBRE 2018 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
in redazione: Elena Bertani Oriana Codispoti
cittabenecomune@casadellacultura.it
powered by:
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2017: Salvatore Settis locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
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Le letture
2015: online/pubblicazione 2016: online/pubblicazione 2017: online/pubblicazione 2018:
J. Gardella, Immigrazione, integrazione, diritto alla casa, commento a: L. Meneghetti, "Siamo partiti col nostro onore…" (Ogni uomo è tutti gli uomini, 2018)
M. A. Crippa, Chiese e città: un tema non solo storiografico, commento a G. Meduri, Quarant'anni di architettura sacra in Italia 1900-1940 (Gangemi, 2016)
G. Di Benedetto, L'architettura e la sostanza delle cose, commento a: C. Baglione (a cura di) Angelo Torricelli. Architettura in Capitanata (Il Poligrafo, 2014)
P. Pileri, Udite, udite: gli alberi salvano le città!, commento a: F. Hallé, Ci vuole un albero per salvare la città (Ponte alle Grazie, 2018)
A. Cagnato, Il paesaggio e la convenzione disattesa, seconda parte del commento a: A. Calcagno Maniglio (a cura di), Per un Paesaggio di qualità (FrancoAngeli 2015)
P. Ceccarelli, De Carlo a Catania: una lezione per i giovani, commento a: A. Leonardi, C. Cantale (a cura di), La gentilezza e la rabbia (Editoriale Agorà, 2017)
A. Cagnato, Il paesaggio e la convenzione disattesa, prima parte del commento a: A. Calcagno Maniglio (a cura di), Per un Paesaggio di qualità (FrancoAngeli 2015)
P. Gabellini, Un nuovo lessico per un nuovo ordine urbano, commento a: F. Indovina, Ordine e disordine nella città contemporanea (FrancoAngeli, 2017)
E. M. Tacchi, Anche quelli interni sono migranti, commento a: M. Colucci, S. Gallo (a cura di), Fare Spazio (Donzelli, 2016)
A. Calcagno Maniglio, Esistono gli specialisti del paesaggio?, commento a: S. Settis, Architettura e democrazia (Einaudi, 2017)
R. Balzani, Suolo bene comune? Lo sia anche il linguaggio, commento a: M. Casa, P. Pileri, Il suolo sopra tutto (Altreconomia, 2017)
A. Clementi, Un nuovo paesaggio urbano open scale, commento a: C. Ratti, La città di domani (con M. Claudel, Einaudi, 2017)
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C. Bianchetti, Lo spazio in cui ci si rende visibili e la cerbiatta di Cuarón, commento a: C. Olmo, Città e democrazia (Donzelli, 2018)
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P. Pileri, L'urbanistica deve parlare a tutti, commento a: Anna Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)
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