Andrea Villani  
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DEMOCRAZIA E RICERCA DELLA BELLEZZA


Note a partire dal libro e dalla conferenza di Salvatore Settis



Andrea Villani


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Dove corre il confine tra paesaggio e città? E come giudicare o indirizzare gli interventi sull'uno e sull'altra, o la continua crescita delle periferie? Devono prevalere i valori estetici (un paesaggio da guardare) o quelli etici (un paesaggio da vivere)? Sono queste le domande che Salvatore Settis pone nel suo Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili (Einaudi, 2017) per affrontare il tema della realtà del territorio nel quale viviamo, edificato e non edificato, ma comunque quasi in ogni luogo toccato dall'azione umana.

Da una vita mi interesso non solo di studiare la città e il territorio, e di comprendere il modo in cui i vari popoli hanno realizzato i loro insediamenti - come questi si sono evoluti e trasformati, ma anche per azione di chi è avvenuta questa trasformazione, per quali obiettivi, attraverso quali regole, metodi e strumenti è stata perseguita - laddove la creazione o trasformazione fisica del territorio e la creazione degli insediamenti umani è stata realizzata seguendo un progetto consapevole. Questo non solo per un interesse conoscitivo - per offrire una lettura, descrizione o interpretazione della realtà - ma in una prospettiva partecipativa più viva possibile al dibattito pubblico sulle scelte collettive che riguardano la città e il territorio. Il che implica porsi in un contesto nel quale giochino - in vario modo e con vari obiettivi - tutti gli attori della trasformazione urbana. Da coloro che detengono il potere in una democrazia rappresentativa, agli studiosi nel campo urbanistico e architettonico, ai cittadini variamente associati per elaborare o discutere con ogni mezzo possibile le scelte sul destino dei contesti in cui vivono affinchè corrispondano a quello che essi considerano il bene comune per le società in cui vivono. Tutto ciò, tanto alla piccola quanto alla grande scala. Per tutti questi motivi sono stato immediatamente attratto dalla proposta intellettuale - e inevitabilmente politica - di Salvatore Settis. Una proposta di notevole spessore, con la quale, per una personale tradizione - che condividono anche gli amici con i quali lavoro da sempre - ritengo di confrontarmi, per un lavoro di discussione, di approfondimento e per l'elaborazione di un pensiero critico operativo.

 

In Architettura e democrazia, le osservazioni sui temi della città, del territorio, del paesaggio, ma anche su società e cittadinanza, sono numerose. Qui prenderemo in considerazione soltanto quelle che riteniamo più importanti in una prospettiva di identificazione di modi di procedere progettuali e di politica del territorio. Prima di fare ciò premettiamo alcune osservazioni generali sul libro che abbiamo letto e considerato in modo approfondito. Taluni asserti di Settis non sembrano leggibili in modo preciso e definito. Non sono univocamente decifrabili. Quindi quello che affermerò in seguito è l'esito di una mia interpretazione, del mio modo di intendere certe affermazioni, ovviamente discutibile.

Partiamo dalle città. Queste - enfatizza Settis - tenderebbero a essere tutte uguali; a veder sparire la distinzione tra tessuti edificati e campagna, ovvero i loro confini; a non segnare più un limite preciso alla città come realtà fisica. Tenderebbero poi a praticare una "verticalizzazione degli insediamenti", vale a dire la realizzazione di grattacieli. E ancora, a segmentare il loro territorio per parti omogenee (formalmente, ma soprattutto socialmente). E sarebbero talvolta caratterizzate dalla presenza di shanty-towns, ovvero "insediamenti informali": bidonvilles, favelas, villas miserias, poblaciones, baraccopoli. Nei confronti di tutto ciò Settis esprime un grido di sofferenza che lo porta quasi ad abbandonare la sua attenzione verso i luoghi privilegiati della bellezza, urbana ed extra-urbana. Scrive infatti:

Di fronte allo spettacolo del degrado paesaggistico e degli ambienti malsani, di fronte all'offesa della dignità umana che esso comporta, crollano le distinzioni terminologiche tra 'paesaggio' e 'ambiente'. Vacilla l'idea stessa di un paesaggio extraurbano come estetizzato locus amoenus che serva a coltivare meccanismi di fuga e di evasione dalla città. Se ci identifichiamo per un istante con chi vive l'intera vita in queste bidonvilles, capiremo quanto sia necessaria una socializzazione del paesaggio, quanto sia vero che non può più esservi una astratta e anodina 'bellezza'. Non c'è bellezza, anzi, senza responsabilità e senza storia; e la storia come narrazione del presente impone responsabilità non solo descrittive ma etico-politiche. Lo capiamo meglio se partiamo da questi luoghi di massima sofferenza e tensione umana e sociale (pp. 141-142).

E ancora, in una situazione di favelas e gated communities, già presente anche nelle realtà europee e italiane:

Possiamo continuare a pensare, a progettare e a gestire il territorio per piccoli segmenti, mettendoci i paraocchi per non guardarci intorno, per non allargare l'orizzonte. Ma il tempo sembra venuto, invece, per una radicale riconsiderazione dei meccanismi di crescita del paesaggio urbano e periurbano come proiezione della società che lo esprime, come 'produzione dello spazio' (p. 142).

Nel parlare di città, paesaggio e architettura, credo si debba compiere innanzitutto una distinzione tra ciò che esiste già, la realtà fisica esistente sotto i nostri occhi, frutto di una accumulazione-stratificazione avvenuta nell'arco temporale di secoli; e quello che si progetta o comunque si prevede per il futuro. Oggi siamo sei miliardi di abitanti sulla faccia della terra. In Italia ci sono 60 milioni di persone. Le previsioni di andamento demografico sono varie e non sempre concordi tra loro, ma tutte indicano una crescita complessiva di miliardi di persone nel prossimo mezzo secolo. Di fronte a una simile realtà, le riflessioni di Settis molto correttamente riguardano da una parte in modo specifico la condizione italiana e quella dei principali paesi occidentali; dall'altra quella di paesi in ampia misura sottosviluppati perché è lì che si gioca il futuro di molta parte dell'umanità.

 

Sulla questione delle gated communities - vale a dire quella del loro impatto negativo sulle città in quanto pratica di 'segmentazione per parti' dei loro tessuti - Settis mentre sottolinea che oggi non esistono più confini netti tra città e campagna, rileva che questi sono invece tracciati all'interno delle città stesse, delimitando aree dove risiedono gruppi di persone appartenenti a classi sociali omogenee. Ora, possiamo osservare che in Italia, in Francia e in Gran Bretagna, così come in tutto il mondo, nei luoghi dove la qualità urbana è più alta da molti punti di vista si concentrano i 'potenti' della società; potenti per censo o per altri motivi di rilevanza economica, politica o sociale. I well-to-do si concentrano spesso nel cuore delle città, ove questo - come a Milano, Parigi, Londra - costituisca la parte più pregiata di questi insediamenti. In altri casi, invece, i centri storici, poichè fatiscenti in grave misura, vengono lasciati agli immigrati o comunque a soggetti diseredati mentre le classi sociali che godono di maggiori disponibilità economiche si concentrano in luoghi esterni al cuore delle città, dove la qualità urbana è migliore.

In genere, i turf recintati e difesi - ovvero le gated communities - sono propri di situazioni in cui la sicurezza delle persone è ampiamente problematica. E tutti quelli che hanno proprietà da tutelare o hanno particolarmente a cuore la sicurezza personale e quella dei loro familiari, cercano di difendersi in modo organizzato, come appunto nei turf, oppure minacciando una armed response se qualcuno tentasse un'intrusione nelle loro proprietà. Si tratta, dunque, in primo luogo di un problema di sicurezza, una questione sociale a cui Settis non sembra dare grande attenzione. Un problema che anche nelle società civili e democratiche riveste una certa importanza, perchè la questione della sicurezza urbana, che per mille ragioni può essere fastidiosa da affrontare, richiede in realtà riflessioni e risposte, ovviamente tutte discutibili. Di fatto in ogni società che io conosca, la disuguaglianza tra le persone (da ogni punto di vista la si consideri) è un elemento evidente, caratterizzante. E questa disuguaglianza di doti naturali e culturali, frutto di eredità genetica o di fortuna economica, si esprime (o si traduce) anche nella disponibilità di reddito e nelle relazioni sociali. Vale a dire in tutto ciò che conta o può contare nello stile di vita personale e in quello delle comunità nel loro insieme. La sfida, l'obiettivo della nostra società - secondo la mia visione - non è (non può essere, non ha senso neppure pensare sia) quello di una improbabile uguaglianza; ma, piuttosto, quello di tendere a dare anche a chi si trova in condizioni disagiate un'esistenza decente.

 

Facendo riferimento alle tendenze attuali, mi sembra di poter osservare qualcosa che il grande numero delle persone desidera e pratica; e che media e politici enfatizzano e promuovono. Vale a dire l'esaltazione di luoghi pregiati e ameni - considerati e qualificati come eccezionali magari dall'Unesco - verso i quali già ora confluiscono masse enormi di turisti, con un processo che si tende a stimolare anche per motivi economici. Perchè - come venne detto a suo tempo - "il nostro petrolio" sono i luoghi naturali e storici portatori della più straordinaria bellezza. Questi luoghi vengono tutelati e valorizzati ove esistenti; altri ne vengono promossi, progettati e creati per soddisfare un fabbisogno di bellezza emergente, o comunque da valorizzare e perseguire. E questa ricerca dell'eccezionale può essere vista quale un complemento o un sostituto di ciò che non si possiede, di cui non si può godere nel proprio alloggio.

Ora il luogo abituale di vita può essere povero, portatore di molte negatività; ma può anche essere del tutto decoroso, sia per quanto attiene il singolo edificio che il quartiere urbano. Tuttavia è possibile, e anche legittimo, che persone che vivono in quei luoghi abbiano desiderio di uscire dall'ambito dell'esperienza quotidiana, di godere di ciò che oggi viene ampiamente presentato dai media come particolarmente attraente e, si intende, come qualcosa da non perdere, perchè significativamente gradevole e magari di grande bellezza. Sottolineo questo perchè nel discorso di Settis anche questo aspetto non sembra sufficientemente considerato. Invece, a me paro chiaro che esiste negli individui e forse nell'intera società un diffuso desiderio di qualcosa di diverso dall'abituale; da ciò che - magari pur buono e decoroso (come lo erano certi quartieri di edilizia sociale del secondo dopoguerra) - non riesce a colmare il desiderio mai sazio di bellezza.

 

Quanto alle città 'verticalizzate', ovvero alla presenza dei grattacieli nei nostri tessuti urbani, possiamo osservare che in Italia ci sono ottomila Comuni; in Francia trentasettemila, e quindi, in entrambi i casi, almeno altrettanti insediamenti. Le principali città italiane sono un centinaio. In quanti centri urbani italiani ci sono grattacieli? In quanti comuni francesi troviamo questo tipo di costruzioni? Certo: non c'è il minimo dubbio che a Dubai, Shangai, Hong Kong e Singapore - come esempi clamorosi - queste strutture siano dominanti. Ma non si tratta assolutamente di un fatto generale e generalizzabile nei nostri contesti. E anche in quei casi si tratta di analizzare e cercare di comprendere le ragioni di fondo - politiche e culturali prima ancora che economiche - che hanno portato e tuttora portano in quegli specifici luoghi alla progettazione e realizzazione di simili strutture. Devo citare a questo proposito Xing Ruan, architetto cinese, là dove racconta la sua personale lettura e interpretazione dell'architettura in Cina, in particolare quella degli ultimi decenni, dopo che Deng Xiaoping ha avviato la sua rivoluzione culturale. Xing Ruan, in New China Architecture, (Periplus, 2006) scrive, innanzitutto citando:

Nell'autunno del Medioevo, l'orgoglio collettivo assunse la forma di realizzare la volta o la spira più alta degli edifici, e Amiens e Beauvais gareggiarono l'una con l'altra in un folle trascurare le leggi dell'ingegneria. La volta della cattedrale di Beauvais raggiunse l'altezza di 157 piedi e tre pollici solo per crollare. L'orgoglio è un peccato mortale. Nell'edificare edifici religiosi, ingegneri, architetti, e loro mecenati mostrarono quanto fosse facile mascherare l'orgoglio con la pretesa di rendere gloria a Dio. (Yi-Fu-Tuan, Morality and Imagination, Wisconsin, 1989, p. 97, ns. trad.)

E prosegue:

Naturalmente nella Cina del XXI secolo non c'è nessun Dio da glorificare, solo ricchezza di capitali e orgoglio nazionale. Dopo più di tre decenni di battaglie ideologiche con l'Occidente, e limitata da una stagnante economia controllata dallo Stato, lo sviluppo economico degli ultimi vent'anni significa, prima e soprattutto, un'abbondanza da tempo in ritardo, necessaria per sostenere una stabilità di vita per gli individui come per lo Stato. Il livello dell'abbondanza e gli sviluppi tecnologici dell'Occidente sono molto ambiti. La scala dello sviluppo o progresso economico può molto agevolmente essere misurata dall'urbanizzazione della Cina, e dalla costruzione degli edifici. Per usare la consumata ma ora realmente efficace metafora: Il drago dormiente si è svegliato! (New China Architecture, p. 11, ns. trad.)

Credo che il motivo della competizione internazionale - che dà senso a questo aspetto della politica urbanistica e architettonica della Cina - valga per le principali metropoli del mondo. Quella di Xing Ruan costituisce un'interpretazione politica e culturale della tendenza, tensione, azione dell'urbanistica cinese in favore dello sviluppo in altezza della città. Ma ci sono anche altre ragioni ad aver portato a realizzare nel cuore delle metropoli selve di grattacieli. E la ragione essenziale, enfatizzata in particolare da Edward Glaeser (in Triumph of the City, Mac Millan, 2011), è che in questo modo, con questo tipo di strutture, si possono concentrare nel cuore delle World Cities, che guidano l'economia mondiale, le funzioni più innovative e trainanti dell'economia e quindi della società, dando alle persone (e quindi alle persone coinvolte con le loro imprese e le loro istituzioni in simili iniziative) possibilità di incontro faccia-a-faccia. E allo stesso tempo determinando più efficienti soluzioni per la mobilità, rispetto alla 'città piatta' della tradizione britannica, e con vantaggi ambientali. Quando poi là dove - nelle città capitali - si realizzano grattacieli in grande numero, si hanno all'intorno, per decine o anche centinaia di chilometri, milioni di abitazioni di medie e piccole dimensioni, e magari di casette monofamiliari col giardino, che vengono di fatto a realizzare la diffusione urbana. Per non parlare - tra l'altro - della tensione, da noi stabilita addirittura per legge, a risparmiare suolo, ovviamente attraverso la densificazione nelle strutture edilizie.

 

Settis enfatizza anche che del termine (e dell'oggetto) paesaggio, nella nostra legislazione si dovrebbero interessare ministeri, assessorati e organi tecnici di diversa natura con competenze e obiettivi diversi. Questo ovviamente dà luogo a molte difficoltà perché si tratta di differenti competenze su territorio, ambiente, paesaggio, aree agricole, aree urbane, città che, in realtà, sono una medesima realtà fisica. Oltre tutto anche in questo campo non soltanto gli obiettivi da perseguire - e quindi le azioni da compiere - ma anche lo stesso modo di osservare, leggere, interpretare questa realtà, sono diversi. Come in ogni altra realtà, ove si debbano stabilire obiettivi - nella sostanza, qui, collettivi - si dovrebbe riuscire a tener conto simultaneamente di diversi punti di vista e diverse esigenze. Su questo punto, Settis insiste in modo particolare. Ma non soltanto con riferimento alla possibile o necessaria azione di ministeri statali o comunque di organi pubblici di governo, ma anche per la lettura e formulazione di analisi e proposte relative all'ambiente da intendersi nel senso più generale. Di fatto l'Autore sostiene che di fronte alle realtà fisiche, territoriali, edificate o non edificate, dovrebbero intervenire ed essere capaci di dialogare (ovviamente in vista di proposte unitarie) tutti gli specialisti delle diverse discipline che alla città e al territorio fanno, nelle loro attività, riferimento. Questo - sottolinea - dovrebbe avvenire non come nei convegni e seminari accademici, nei quali i diversi relatori spesso esprimono tesi frutto della loro competenza specialistica senza interrelarsi, senza tener conto delle tesi, analisi, posizioni degli altri. Ora, non credo concretamente fattibile - se non per determinati precisi casi di territori gestiti unitariamente da un potere politico forte o da potenti privati - che si possa realizzare una progettazione complessiva facendo giocare una molteplicità di competenze analoghe a quelle indicate. La soluzione possibile, con riferimento a un progetto da attuare, è quella di avere un soggetto che - dopo aver sentito i singoli pareri, le singole opinioni e suggerimenti - sia in grado di prendere - e prenda - la decisione finale, valorizzando e trascurando gli elementi che ritenga rispettivamente accoglibili o da accantonare. Perché - sia per quanto riguarda l'ambiente e la città come in ogni altra scelta individuale o collettiva - ritengo teoricamente oltre che praticamente impossibile contemperare o mediare o ridurre a unità in modo concordante tutti i possibili elementi, esigenze, aspettative, fattori rilevanti in gioco. Certo, è comprensibile l'aspirazione a realizzare una mirabile fusione di opinioni e tesi derivanti da sensibilità e competenze diverse. Oltre che auspicare ciò, si può anche avanzare l'ipotesi che da una continua discussione si possa giungere a esiti unitari. E mi viene da ricordare in proposito il modo in cui nella famosa comune di Tachai, in Cina, al tempo della Rivoluzione Culturale, si giungeva a decidere all'unanimità nel processo di decisione collettivo. Ma a parte l'ironia e il coraggio necessari nel ricordare una simile tragedia, ritengo di dover dire che - dopo interminabili discussioni - anzichè a esiti unitari, sia del tutto possibile la conferma di distinte divisive interpretazioni e proposte. E quindi, in simili realistiche circostanze, o non si prendono decisioni - come ad esempio è avvenuto per mezzo secolo in Milano, per la destinazione dell'area di Porta Nuova a centro direzionale prevista dal Piano regolatore generale del 1953 - oppure si giunge a un esito che certamente non trova il consenso unanime dei molteplici differenziati 'cultori della materia' o semplici cittadini, ma che esprime il sentire intuitivo e di sintesi di chi può decidere.

 

Ho ripreso in questa mia riflessione alcuni nodi cruciali delle tesi di Salvatore Settis che mi paiono particolarmente rilevanti dal punto di vista di ciò che potrebbero indicare quanto a modi di procedere nell'attività di pianificazione della città e del territorio. E ho già introdotto qualche elemento di risposta. Ora tenterò di procedere ulteriormente, tenendo conto di quanto espresso dall'Autore in una conferenza - curata da Oriana Codispoti - tenuta alla Casa della Cultura il 12 dicembre 2017 sul tema Le politiche della bellezza in Italia e in Europa. Ovviamente - tanto nel suo discorso quanto nel libro a cui faccio qui esplicito riferimento - ritengo di cogliere, e mi arrischio a cogliere - come è presumibilmente inevitabile - quelli che a me paiono gli elementi essenziali, tenendo conto anche di quanto affermato dopo la conferenza ovvero dopo le osservazioni che gli sono state mosse.

Una prima questione riguarda il nesso tra etica ed estetica; vale a dire ciò che ci spinge - come criterio generale - a cercare il bene, la morale e, insieme, la bellezza. È certo che ci deve essere una connessione tra etica ed estetica - sottolinea Settis rispondendo a un intervento del pubblico. E poi - in tutto il suo discorso, anche se enfatizza che non esiste niente di naturale come immodificabile - di fatto la sua sottolineatura è nel dichiarare il senso e l'importanza di conservare nella maggiore misura possibile l'eredità del passato; come espressione di culture e civiltà: dai Buddha alle moschee, dalle chiese agli obelischi e ad ogni altra testimonianza storica. Questo ovviamente proprio in quanto testimonianza, indipendentemente - ritengo - dal giudizio che si può dare oggi sulla qualità estetica e morale di quelle opere.

Le domande che suscita tutto questo discorso, sono: quali indicazioni concrete possono venire date all'operatore pubblico - autocratico piuttosto che ampiamente, variamente democratico - sul modo di pensare e attuare politiche per la città, il paesaggio urbano e non urbano? E come, in tutto questo, è possibile operare in vista del perseguimento della bellezza? In particolare, per fare un esempio estremo, come procedere nei confronti degli insediamenti marginali, le informal cities? Dobbiamo conservarle e valorizzarle come testimonianza di una specifica espressione culturale? E, se no, quali linee seguire? Come intervenire o comunque, quali politiche seguire per insediamenti che coinvolgono oggi miliardi di persone, e che presumibilmente e ragionevolmente continueranno ad espandersi anche nel futuro? Settis, né in questo libro, né nel suo discorso alla Casa della Cultura, dà la minima indicazione sulle politiche che si potrebbero proporre - e che ritengo dovrebbero venire proposte - da chi intende porsi come stimolatore o consigliere del principe democratico.

Detto ciò, non ho il minimo dubbio che sia estremamente difficile dare risposte significative sui temi delle politiche del paesaggio e della bellezza. Ma la sfida è proprio questa. Marco Romano - nel suo intervento nel dibattito seguito alla conferenza di Settis alla Casa della Cultura - ha messo in evidenza un tema cruciale facendo riferimento a un esempio rilevantissimo (la vicenda di Piazza del Campo di Siena) citato da Settis come espressione dei maggiorenti della città per realizzare - detto e scritto in modo esplicito - obiettivi di bellezza. In una certa epoca, in quella stessa città, nel passaggio dal tramonto del Medioevo al Rinascimento, la cortina di case e palazzi che definiva la piazza venne demolita per essere sostituita da altri edifici realizzati in un nuovo linguaggio che, si riteneva in quel momento, era autentica espressione di bellezza, quindi da seguire. Ciò, dunque, eliminando quella ereditata dal passato che non pareva esserlo più, agli occhi di chi riteneva di interpretare la verità dello spirito del tempo. Nel mio intervento sottolineavo che il discorso di Marco Romano avrebbe potuto essere esteso in una tesi e linea interpretativa generale. Quello che conta, per noi come singole persone, è ciò che riteniamo valere in un certo momento della nostra vita. E se in un momento della nostra vita riteniamo che nostre espressioni ed esperienze del passato siano negative, o anche semplicemente superate - molto probabilmente non possiamo cancellarle dalla memoria, ma possiamo cercare di distruggerne le testimonianze visibili e concrete. Orbene: se questo vale per noi come singole persone, ritengo valga anche per noi come comunità, come nazioni, e persino come insieme di nazioni. E se guardiamo al passato, possiamo vedere che in ogni fase storica si è avuto un orientamento dominante, ad esempio in termini estetici, come nell'esempio citato da Romano. Il problema di oggi è che non esiste un pensiero e un orientamento dominante, nei paesi occidentali, tanto per quanto concerne l'etica quanto l'estetica. E il nodo è proprio qui. Settis non tiene conto di questo. Non fornisce alcuna indicazione - ovviamente difficilissima, e probabilmente impossibile da offrire - per ciò che può significare la bellezza in assoluto. Ma soprattutto non sembra sufficientemente convincente neppure nel rispondere alla questione del significato di bellezza come definita dai soggetti che ne sono direttamente coinvolti, nel loro tempo.

Il punto drammatico della storia è il seguente. Se nel nostro tempo non esiste un criterio dominante né di etica né di estetica - vale a dire di buono e di giusto comportamento umano, così come di creazione di bellezza - in base a quale criterio di ragione si potrà stabilire cosa scegliere per le nuove creazioni; e cosa conservare di ciò che è giunto a noi dal passato? Ci si deve appellare - come correntemente ci si appella - all'articolo 9 della Costituzione, che recita: "la Repubblica… tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione"? Ma, questa tutela come la dobbiamo interpretare? Ho fatto l'esempio della conservazione di ciò che tocca ciascuno di noi; e come noi possiamo decidere di distruggere elementi della nostra storia, per nostri motivi. Nell'ambito collettivo, è sempre di fatto accaduto che anche strutture, opere, oggetti, siano stati distrutti. Vogliamo ricordare creazioni rilevanti del periodo fascista? Ancora oggi vi sono politici importanti che parlano persino di demolire rilevanti architetture di quell'epoca. E dunque - mi chiedo provocatoriamente - perché i talebani non avrebbero dovuto distruggere le statue del gigantesco Buddha, o i membri dell'Isis le rovine di Palmira?

Sui beni collettivi è legittimato a prendere le decisioni chi ha il potere politico; democratico o autocratico. Ma in una società liberale e democratica nella quale viene esaltata e diffusa come valore fondamentale la libertà intesa come autonomia individuale, come giungere a una scelta collettiva? Necessariamente attraverso un processo di decisione politico. Dunque, si deve decidere a maggioranza quale opera creare; quale progetto di sviluppo o rinnovo urbano approvare? Certo: si può procedere anche così; e di solito si procede così: con una decisione di democrazia diretta (come - anche per le questioni urbane - nei referendum elvetici o come sta succedendo anche a Milano). Oppure attraverso organismi di democrazia rappresentativa. Ma deve essere ben chiaro che non rientra tra le possibilità della democrazia - che si esprima col voto - di giungere a definire esiti di verità, di giustizia, di bontà, di bellezza in senso assoluto. Perchè la democrazia consente soltanto di esprimere ciò che è pensato e desiderato dalla maggioranza in un certo momento su certe questioni e modi di essere dei cittadini votanti. Nella migliore delle ipotesi, dopo un libero, ampio e approfondito dibattito pubblico.

 

Settis - come accennato - affronta anche la realtà delle informal cities. Nel riflettere su questo tema, sostiene che una società civile - in quanto portatrice di una certa sensibilità politica e morale - non può certo non tener conto delle questioni di giustizia e di equità connesse all'esistenza di questi insediamenti. E dunque, nel dibattito pubblico, si deve necessariamente mettere sul tappeto la questione della città dei poveri. Qui l'obiettivo che pone da raggiungere - come si può leggere testualmente nel suo libro - è quello della "socializzazione del paesaggio". Ora, sulla questione delle shanty-town che oggi includono un miliardo di persone, e tra pochi decenni presumibilmente molte di più, ritengo di poter ragionevolmente prevedere che queste non potranno venire eliminate nell'arco di pochi decenni. Di fronte a questa realtà, motivatamente considerabile drammatica, mi sembra possano essere pensate politiche di lungo periodo che tendano a un miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti di questi contesti. Tra queste paiono essenziali quelle di matrice urbanistica, pensate ex ante, ovvero innanzitutto prevedendo (realisticamente) che le shanty town continueranno, in diversi contesti extraeuropei, a formarsi ancora per molto tempo. Dunque si dovrebbe innanzitutto prevedere e predisporre il loro modo di essere nel quadro di una politica urbanistica e sociale. Perchè non tutte le informal city sono uguali. Una cosa - per esemplificare - sono le città spontanee sorte intorno a Brasilia, altro sono le favelas di Rio de Janeiro. La risposta da cercare per quelle realtà riguarda innanzitutto il tentativo di fare in modo che escano dalla concezione di rifiuto urbano totale. Che vengano minimamente organizzate su una rete di viabilità; che in esse, proprio nei nodi della viabilità, siano posti i fondamentali, essenziali servizi collettivi. Tutto questo implica che si accetti l'idea - abitualmente rifiutata come iniqua e ingiusta - dell'existenz-minimum. E si diano - per quanto possibile - materiali essenziali, e l'addestramento necessario per utilizzarli in modo appropriato per l'autocostruzione delle residenze.

 

Accanto a questo mi arrischio a proporre anche per queste realtà obiettivi di bellezza. Intendo cioè sostenere che anche il modo di essere e di vivere in condizioni di grave povertà, potrebbe essere organizzato in modo pulito, non indecente, con modalità alternative su cui potrebbe esprimersi un design di fantasia spontanea e personale oppure, invece, di rigore formale. Non è detto che queste modalità espressive non possano coesistere nel medesimo contesto di ogni specifico informal settlement. Ma tutto questo va pensato e progettato. Prima, ci vuole rigore nel predisporre e mantenere le infrastrutture essenziali. Poi, man mano nel tempo - se la popolazione di quei luoghi non aumenta a dismisura - si potrà avviare un'azione concreta per migliorare e trasformare le singole strutture e il loro insieme. Precisamente come ho visto fare in alcune shanty town del Sudafrica. Insieme, sottolineo - e questo è un punto tanto cruciale quanto difficile - in modo che gli abitanti delle shanty town non siano oggetto di disprezzo da parte degli altri cittadini più fortunati. Così facendo quei luoghi, quelle realtà umane e urbane anomale e socialmente marginali, potrebbero divenire oggetto di visite turistiche, di accoglienza per feste e manifestazioni folkloristiche di peculiari etnie e tradizioni. Potrebbero anche essere presentati e diffusi nei documentari e su brillanti cartoline illustrate. Questo a indicare un contesto dove si può vivere bene anche disponendo di risorse economiche limitatissime.

Sono tuttavia consapevole che questa idea (forse, illusoria speranza) costituisce il punto più debole della mia riflessione. Per una quantità di motivi. Il primo è che una miriade di persone si insedia in questi contesti senza nessuna autorizzazione, controllo, possibilità di previsione. Poi si localizza dove vi sono aree disponibili, occupabili; realizzando le proprie baracche spesso le une a ridosso con le altre, là dove la prossimità non è ostile. Questo, da un punto di vista generale, con modalità molto diverse da caso a caso. In talune realtà in aree nettamente distinte e separate dalla città esistente, specie dalla parte più qualificata, mentre in altri, come nelle tradizionali favelas brasiliane, proprio affiancate a queste. In secondo luogo - per perseguire una politica di ordine e di dotazione di servizi come quella da noi auspicata - si deve certamente pensare quanto meno a stabilire ex ante gli elementi essenziali, certamente necessari per un minimo standard di insediamento umano. Vale a dire le strade, le fogne, la rete dell'acqua e dell'energia elettrica. Servizi che peraltro sarebbero realizzabili solo per le nuove informal city, o le loro espansioni, e non per quelle esistenti, che altrimenti dovrebbero essere spazzate via. Ma questo pregresso, di milioni di persone, o addirittura di decine di milioni, è gigantesco e lo sforzo da compiere, non solo economico, sarebbe enorme.

L'altro punto critico riguarda la proprietà del suolo. A quale titolo sarebbe attribuita alle persone che vivono in questi contesti? E supponendo di aver stabilito una lottizzazione su un demanio comunale, a quel punto si potrebbero dare indicazioni per il tipo di strutture da realizzare? In altri termini, è realistico pensare che l'amministrazione pubblica abbia la possibilità di stabilire le regole del gioco? Ed è realistico immaginare che i nuovi arrivati siano disponibili e abbiano la volontà e capacità di apprendere, in condizioni di molteplici difficoltà di ogni tipo, come costruire le loro case? Si deve, tuttavia, tenere presente che sul modo di procedere ipotizzato, vi sono state e sono in atto da tempo esperienze in taluni paesi. Ricordo, per esempio, le elaborazioni teoriche del giovane Giancarlo De Carlo, e quelle di John Turner, le barriadas del Peru, ed esperienze anche recenti di cui parla Saskia Sassen (Neither City nor Suburb, in Justin McGuirk, Gonzalo Herrero Delicado (eds), Fear and Love. Reactions to a Complex World, The Design Museum, Phaidon Press, 2017, pp.176 ss.).

Come già avevo scritto e pensato anni fa in Realtà e miti della progettazione. Politiche alternative dell'habitat e forze sociali (FrancoAngeli, 1978), penso possa avere senso - procedendo in un simile modo - operare con un planning radicalmente diverso da quello cui siamo abituati nelle nostre città. Non possiamo dimenticare che abitazioni progettate con i criteri del Movimento moderno, in Australia e negli Stati Uniti sono state fatte saltare in aria, come conseguenza di una decisione politica, perché considerate inadatte e inaccettabili da coloro ai quali erano destinate. Qui si tratta di andare da un livello minimo esistenziale, a un livello - se possibile - man mano più elevato. E il giudizio estetico sarà variabile. D'altronde, non è che rispetto a canoni tradizionali taluni allestimenti artistici che comunemente vediamo in alcune manifestazioni internazionali siano più apprezzabili delle shanty town.

 

Ho cercato di esprimere qui mie osservazioni su taluni punti del libro di Salvatore Settis. Credo peraltro di aver messo in evidenza un fatto che considero particolarmente importante. Mi sembra - se la mia lettura non è radicalmente sbagliata - che Settis consideri quasi sullo stesso piano tutti gli insediamenti umani esistenti nel mondo, e allo stesso modo tutte le azioni o politiche volte a realizzare nuovi insediamenti umani, o loro ampliamenti e trasformazioni. Naturalmente, se ciò che si realizza in concreto è in qualche modo almeno frutto di esperienze, di elaborazioni teoriche e di sperimentazioni a queste connesse, sembrerebbe da questa lettura che ci sia un'unanimità nelle elaborazioni teoriche e nella lettura e valutazione di queste esperienze. Ma non è così. La stragrande maggioranza delle popolazioni del mondo non vive in città verticalizzate. Le città esistenti esprimono nel loro modo di essere una pluralità di ricerche, storia, culture, tradizioni ben differenziate. E queste sono frutto anche di elaborazioni teoriche, in parte compiute da creativi utopici, in parte da architetti e pianificatori, in parte da pragmatici operatori pubblici e privati nell'arco di più di un secolo. Credo di poter dire che per esempio nell'esperienza britannica, e in modo diverso ma importante negli Stati Uniti, e accanto a questi nelle esperienze olandese e svedese, si è cercato di giocare non solo un'azione di controllo sull'organizzazione fisica per quanto essenzialmente rilevante a livello locale, ma simultaneamente a una scala regionale. Ricordo - per citare un caso italiano, quello del Piano intercomunale milanese (il PIM) tra i cui obiettivi fondamentali vi era quello di realizzare uno sviluppo economico in condizioni di riequilibrio programmato alla scala nazionale. Quelle politiche in una prospettiva di piano - che miravano a obiettivi concreti di localizzazione di investimenti, di strutture produttive, di popolazione, di residenze e di servizi - avevano alle spalle una rilevante elaborazione teorica che si sviluppò soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. Questa si era sviluppata nelle università e nei politecnici innanzitutto da parte di geografi che riscoprirono i modelli di von Thuenen, di Weber, di Christaller, di Loesch, ma poi ebbero un enorme stimolo e sviluppo in USA con il lavoro di Walter Isard, di Melvin Webber, di Britton Harris, di J.B. McLoughlin, di Aaron Wildawsky. E nel contesto di queste elaborazioni teoretiche, modelli gerarchico-gravitazionali, applicazioni di input-output analysis, applicazioni di analisi costi-benefici riferite a macro o micro-insediamenti o alternative di realizzazione di infrastrutture, nel quadro di una programmazione economica e sociale globale, partendo da precise direttive politiche. Di tutto quello non solo non è rimasto nulla, ma nemmeno più vengono citati quei testi espressione di una imponente ricerca e di un enorme dibattito anche in Italia. Ciò che, di fatto, nei decenni scorsi ha permeato la società e le regole di trasformazione urbana e territoriale è l'economia; non più come applicazione di modelli teorici elaborati in chiave interpretativa o normativa dagli economisti, ma come gioco del capitale, intesa come molla dello sviluppo. Sviluppo da realizzare nei paesi occidentali in una situazione in cui è avvenuta la grande trasformazione da società industriali, aventi il proprio perno sulla produzione manifatturiera, a realtà economiche dove il nocciolo, l'elemento cruciale nella formazione del prodotto interno lordo è giocato dalle attività di servizio.

È evidente che a determinare la crescita delle città non hanno giocato soltanto le iniziative del grande capitale, anche se senza dubbio ciò è avvenuto in determinate world city. Da una parte ha giocato lo sviluppo complessivo delle società occidentali che comunque è stato sperimentato in tutti i paesi occidentali, Italia inclusa. Si è infatti avuta la possibilità-capacità delle singole famiglie - a milioni - di domandare e realizzare nuove abitazioni; con tipologie e modalità insediative che hanno modificato amplissimamente la forma delle città. D'altra parte, allo stesso tempo, le innovazioni meccaniche, chimiche, e poi elettroniche, hanno modificato radicalmente anche il modo di essere dell'agricoltura. E insieme a ciò sono cresciute tensioni a favore di politiche 'verdi'; di conservazione dell'ambiente, che hanno portato a cercare - nell'ambito del planning - di vincolare aree per realizzare in concreto parchi e giardini urbani ed extraurbani.

Di fatto nelle città più importanti - che progressivamente sono andate configurandosi come luoghi dell'innovazione (smart-cities) - accanto alle politiche degli anni Sessanta e Settanta per un rinnovo urbano a favore del mantenimento delle classi più deboli nei centri storici, e insieme con il recupero e conservazione di questi, anche di quelli meno qualificati (si pensi ad esempio alla questione delle case popolari di Corso Garibaldi a Milano), nel tempo sono state praticate politiche per la trasformazione dei luoghi abbandonati: dalle fabbriche dismesse che giungevano fin nel cuore dei centri urbani, ai docks nelle grandi città di mare. Questo processo di trasformazione è emerso e si è diffuso al punto da caratterizzare un'epoca. E insieme alle prassi si è sperimentata una elaborazione teorica e culturale in favore degli interventi del capitale privato con pieno consenso delle amministrazioni pubbliche che - in un periodo di grave crisi economica e sociale - hanno cercato e cercano ancora di realizzare insediamenti per le più varie attività terziarie e di servizio, di leisure, di arte, cultura, commercio di alto livello. Ciò avviene soprattutto per iniziativa del grande capitale che, in termini formali, predilige le forme più fantasmagoriche e appealing possibili in una situazione in cui, con le tecniche attuali, è possibile realizzare le strutture più stravaganti. Che è poi possibile caricare di altri significati, considerandole luoghi di incontro, di aggregazione, e in quanto tali da considerare come socialmente positivi. Cosa che vale per le strutture fisiche così come i prodotti in esposizione, e insieme gli spettacoli, le mostre, le installazioni, nel modo più disparato.

In una simile situazione, per quanto riguarda le politiche urbanistiche le amministrazioni pubbliche cercano - diremmo con un linguaggio datato - di 'razionalizzare le tendenze in atto'. Ci sembra inoltre di poter osservare che, per quanto attiene l'elaborazione teorica e culturale, le idee fondamentali stiano maturando frequentemente all'esterno di università, politecnici, istituti di ricerca. Credo sia possibile affermare che quelli che in un tempo non lontano costituivano luoghi rilevanti e forse fondamentali di elaborazione intellettuale e politica, oggi - nell'ambito della progettazione e pianificazione della città e del territorio - siano lontani dalla realtà concreta. Una realtà di paesaggi, di architetture, di città e villaggi, di potenze economiche e allo stesso tempo di miriadi di persone che rivendicano l'attuazione delle loro personali aspirazioni in una società dell'individualismo di massa.

Andrea Villani

 

 

 

 

 

N.d.C. - Laureato in scienze economiche, filosofia e architettura, Andrea Villani ha diretto il Centro Studi Piano Intercomunale Milanese. Ha insegnato Economia urbana all'Università Cattolica di Milano ed è stato coordinatore del programma Sulla citta, oggi. Ha inoltre diretto "Citta e Società", è stato condirettore di "Edilizia Popolare" e attualmente è tra gli animatori e coordinatori di ULTRA (Urban Life and Territorial Research Agency) del Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Tra i suoi libri editi da ISU Università Cattolica: La pianificazione della città e del territorio (1986); La pianificazione urbanistica nella società liberale (1993); La gestione del territorio, gli attori, le regole (2002); Scelte per la città. La politica urbanistica (2002); La decisione di Ulisse (2000); La città del buongoverno (2003). Per i tipi di FrancoAngeli, nel 2018 ha curato, con Enrico Maria Tacchi, Parchi, giardini, riserve naturali.

Per Città Bene Comune ha scritto: Disegnare, prevedere, organizzare le città (28 aprile 2016); Progettare il futuro o gestire gli eventi? (21 luglio 2016); Arte e bellezza delle città: chi decide? (9 dicembre 2016); Pianificazione antifragile, una teoria fragile (10 novembre 2017); L'ardua speranza di una magnificenza civile (15 dicembre 2017); Post-metropoli: quale governo? (20 aprile 2018).

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche i contributi di: Giampaolo Nuvolati, Città e paesaggi: traiettorie per il futuro (8 dicembre 2017); Francesco Ventura, Sapere tecnico e etica della polis (28 settembre 2018); Annalisa Calcagno Maniglio, Esistono gli specialisti del paesaggio? (19 ottobre 2018).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

29 NOVEMBRE 2018

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

18 dicembre 2018, ore 18 Cesare de Seta locandina/presentazione sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018:

G. Consonni, Le ipocrisie della modernità, commento a G. Della Pergola, La società ipocrita (Solfanelli, 2018)

C. Morandi, Risorse virtuali e uguaglianza territoriale, Commento a: C. Ratti, M. Claudel, La città di domani (Einaudi, 2017)

J. Gardella, Immigrazione, integrazione, diritto alla casa, commento a: L. Meneghetti,"Siamo partiti col nostro onore…" (Ogni uomo è tutti gli uomini, 2018)

M. A. Crippa, Chiese e città: un tema non solo storiografico, commento a G. Meduri, Quarant'anni di architettura sacra in Italia 1900-1940 (Gangemi, 2016)

G. Di Benedetto, L'architettura e la sostanza delle cose, commento a: C. Baglione (a cura di) Angelo Torricelli. Architettura in Capitanata (Il Poligrafo, 2014)

P. Pileri, Udite, udite: gli alberi salvano le città!, commento a: F. Hallé, Ci vuole un albero per salvare la città (Ponte alle Grazie, 2018)

A. Cagnato, Il paesaggio e la convenzione disattesa, seconda parte del commento a: A. Calcagno Maniglio (a cura di), Per un Paesaggio di qualità (FrancoAngeli, 2015)

P. Ceccarelli, De Carlo a Catania: una lezione per i giovani, commento a: A. Leonardi, C. Cantale (a cura di), La gentilezza e la rabbia (Editoriale Agorà, 2017)

A. Cagnato, Il paesaggio e la convenzione disattesa, prima parte del commento a: A. Calcagno Maniglio (a cura di), Per un Paesaggio di qualità (FrancoAngeli, 2015)

P. Gabellini, Un nuovo lessico per un nuovo ordine urbano, commento a: F. Indovina, Ordine e disordine nella città contemporanea (FrancoAngeli, 2017)

E. M. Tacchi, Anche quelli interni sono migranti, commento a: M. Colucci, S. Gallo (a cura di), Fare Spazio (Donzelli, 2016)

A. Calcagno Maniglio, Esistono gli specialisti del paesaggio?, commento a: S. Settis, Architettura e democrazia (Einaudi, 2017)

R. Balzani, Suolo bene comune? Lo sia anche il linguaggio, commento a: M. Casa, P. Pileri, Il suolo sopra tutto (Altreconomia, 2017)

A. Clementi, Un nuovo paesaggio urbano open scale, commento a: C. Ratti, La città di domani (con M. Claudel, Einaudi, 2017)

L. Meneghetti, Stare con Settis ricordando Cederna, replica alla posizione di Marco Romano e Francesco Ventura

C. Bianchetti, Lo spazio in cui ci si rende visibili e la cerbiatta di Cuarón, commento a: C. Olmo, Città e democrazia (Donzelli, 2018)

F. Ventura, Sapere tecnico e etica della polis, commento a: S. Settis, Architettura e democrazia (Einaudi, 2017)

P. Pileri, L'urbanistica deve parlare a tutti, commento a: Anna Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Indovina, Non tutte le colpe sono dell'urbanistica, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)

M. Balbo, Disordine? Il problema è la disuguaglianza, commento a: F. Indovina, Ordine e disordine nella città contemporanea (FrancoAngeli, 2017)

R. Milani, Viaggiare, guardare, capire città e paesaggi, commento a: C. de Seta, L'arte del viaggio (Rizzoli, 2016)

F. Gastaldi, Un governo del territorio per il Veneto?, commento a: M. Savino, Governare il territorio in Veneto (Cleup, 2017)

G. Nuvolati, Tecnologia (e politica) per migliorare il mondo, commento a: C. Ratti, La città di domani (con M. Claudel, Einaudi, 2017)

F. Mancuso, Città come memoria contro la barbarie, commento a: A. Zevi, Monumenti per difetto (Donzelli, 2014)

M. Morandi, Per una Venezia di nuovo vissuta, commento a: F. Mancuso, Venezia è una città (Corte del Fontego, 2016)

R. Pavia, Leggere le connessioni per capire il pianeta, commento a: P. Khanna, Connectography (Fazi, 2016)

G. Consonni, In Italia c'è una questione urbanistica?, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)

M. Romano, Memoria e bellezza sotto i cieli d'Europa, commento a: S. Settis, Cieli d'Europa (Utet, 2017)

V. Biondi, La nuova crisi urbana negli USA, commento a: R. Florida, The New Urban Crisis (Basic Books, 2017)

P. Colarossi, Per un ritorno al disegno della città, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2012, rist. 2015)

A. Clementi, In cerca di innovazione smart, commento a: C. Morandi, A. Rolando, S. Di Vita, From Smart Cities to Smart Region (Springer, 2016)

P. Pucci, La giustizia si fa (anche) con i trasporti, commento a: K. Martens, Transport Justice. Designing fair transportation systems, (Routledge, 2017)

E. Trusiani, Ritrovare Mogadiscio, commento a: N. Hagi Scikei, Exploring the old stone town of Mogadishu (Cambridge Scholars Publishing, 2017)

A. Villani, Post-metropoli: quale governo?, commento a: A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci, Oltre la metropoli (Guerini, 2017)

R. Cuda, Le magnifiche sorti del trasporto su gomma, commento a: M. Ponti, Sola andata (Egea 2017)

F. Oliva, Città e urbanistica tra storia e futuro, commento a: C. de Seta, La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi (Longanesi, 2017) e La città, da Babilonia alla smart city (Rizzoli, 2017)

J. Gardella, Attenzione al clima e alla qualità dei paesaggi, commento a: M. Bovati, Il clima come fondamento del progetto (Marinotti, 2017)

R. Bedosti, A cosa serve oggi pianificare, commento a: I. Agostini, Consumo di luogo (Pendragon, 2017)

M. Aprile, Disegno, progetto e anima dei luoghi, commento a: A. Torricelli, Quadri per Milano (LetteraVentidue, 2017)

A. Balducci, Studio, esperienza e costruzione del futuro, commento a: G. Martinotti, Sei lezioni sulla città (Feltrinelli, 2017)

P. C. Palermo, Il futuro di un Paese alla deriva, riflessione sul pensiero di Carlo Donolo

G. Consonni, Coscienza dei contesti come prospettiva civile, commento a: A. Carandini, La forza del contesto (Laterza, 2017)

P. Ceccarelli, Rappresentare per conoscere e governare, commento a: P. M. Guerrieri, Maps of Delhi (Niyogi Books, 2017)

R. Capurro, La cultura per la vitalità dei luoghi urbani, riflessione a partire da: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2017)

L. Ciacci, Il cinema per raccontare luoghi e città, commento a: O. Iarussi, Andare per i luoghi del cinema (il Mulino, 2017)

M. Ruzzenenti, I numeri della criminalità ambientale, commento a: Ecomafie 2017 (Ed. Ambiente, 2017)

W. Tocci, I sentieri interrotti di Roma Capitale, postfazione di G. Caudo (a cura di), Roma Altrimenti (2017)

A. Barbanente, Paesaggio: la ricerca di un terreno comune, commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Ventura, Su "La struttura del Paesaggio", commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

V. Pujia, Casa di proprietà: sogno, chimera o incubo?, commento a: Le famiglie e la casa (Nomisma, 2016)

R. Riboldazzi, Che cos'è Città Bene Comune. Ambiti, potenzialità e limiti di un'attività culturale

 

 

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