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LA MESSA IN FORMA DELL'IMMAGINARIO
Commento al libro di Angelo Torricelli
Salvatore Tedesco
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In una splendida pagina del 1938 - su cui assai opportunamente Angelo Torricelli nel suo Palermo interpretata (Lettera Ventidue, 2016) richiama l'attenzione del lettore - ha detto Vitaliano Brancati: "Al tramonto i raggi del sole passano tra le montagne, colpendo Palermo nel più irregolare dei modi. La luce salta interi quartieri, che riemergono in una penombra turchina, e accende gruppi di case nei punti più disparati. La scena è molto singolare. Si vedono cupole, terrazze, tetti completamente privi di luce e, sotto questi, file di case basse illuminate fortemente" (1).
Fra le numerose chiavi d'accesso che Torricelli appare fornire al contempo a se stesso e al lettore, nel proprio percorso di appressamento alla città - Palermo appunto - in cui si è trovato a insegnare fra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta, dunque in una stagione decisiva per la storia recente italiana, per la storia di quella città, nonché per gli assetti disciplinari del discorso urbanistico, la breve pagina di Brancati colpisce perché sembra offrire una sistemazione teorica esemplare, proponendoci la luce come metafora della conoscenza, ma di fatto poi mostrandoci come si tratti di una chiave d'accesso, di una logica interpretativa, destinata per sua natura a riaprire i giochi, e non certo a chiuderli definitivamente: è la luce della conoscenza, questo è certo; ma si tratta di una luce discontinua, o meglio ancora di una luce che non illumina tutto uniformemente, non azzera le differenze qualitative dei luoghi e dei tempi del vissuto, ma piuttosto si raccoglie in momenti e in spazi salienti, guida il nostro sguardo ad "articolare per temi critici" la conoscenza della città.
La pagina di Brancati, nella costruzione sapiente di questo volumetto, giunge quasi ultima, dopo che Torricelli ci ha condotto attraverso differenti modelli di comprensione delle dinamiche della città; ecco dunque riproposti (pp. 39-43) i percorsi celebri che riconducono ai nomi di alcuni dei viaggiatori illustri del Grand Tour: le prospettive contrapposte di Goethe - che giunge dal mare e percorre la città seguendone l'asse verticale verso i monti - e di Schinkel che viceversa giunge dal monte, da Monreale, e percorre il medesimo asse in direzione opposta, verso il mare. Eppure - ci fa sospettare Torricelli - nell'un caso come nell'altro il vero supplemento conoscitivo, la vera forza dello sguardo teorico, è quella che trattiene Goethe ancora sul ponte della nave prima dell'attracco (e si tratta ancora - per inciso - del tema per eccellenza goethiano dello studio della distribuzione della luce), oppure quella che guida Schinkel a considerare la struttura tettonica e la cerchia delle montagne dalla terrazza del castello della Zisa. Non sorprende allora che allo sguardo di questi visitatori Torricelli accosti poi un modello teorico forte come quello dell'iconologia di Panofsky, ovvero la "tensione originaria" (p. 93) che attraversa la polarità dei concetti antitetici mediante i quali si cerca di cogliere il senso dei fenomeni.
In effetti, tutto lo studio di Torricelli - "tra minuzie e idee generali", chiosa egli stesso (p. 74) - è attraversato da una costante tessitura che riconduce insieme le aperture teoriche più potenti e lo studio più minuto dei particolari urbanistici, dei fatti storici, delle piccole dissimmetrie rivelatrici. Il suo antico allievo Giuseppe Di Benedetto, in uno dei preziosi saggi che fanno da corona ai tre lavori di Torricelli, parla non a caso di un "paradigma indiziario" e di uno sguardo "da detective" del maestro. La conoscenza dell'architetto - dice Torricelli - avviene sempre ""attraverso" il progetto" e non "prima" del progetto (p. 59). Il progetto è dunque il peculiare luogo epistemico dello sguardo che consente di costruire - come dice ancora Torricelli con un'espressione volutamente ossimorica - la "teoria di una specifica città" (p. 67); una considerazione teorica che, anziché distaccarsi dalla singolarità dei fenomeni, diventa capace di immergersi nella loro effettiva strutturazione, e verrebbe da dire con Vico nella loro verità effettuale: in quella cioè che è vera per gli effetti cui dà luogo.
Sottraendosi al duplice rischio di una pratica della conservazione totale urbanistica che si risolve in mummificazione, spesso astrattamente invocata come antidoto al degrado portato sulla città da una lunga e tristemente nota stagione politica-affaristica, la prospettiva di Torricelli trae invece dalla lezione di Saverio Muratori l'insegnamento per cui ""lettura del reale" e "progetto" coincidono" (p. 55). Si tratta di una lezione che non smette di avere una valenza didattica e di ricerca davvero esemplare: la decifrazione dei luoghi, la comprensione della loro vicenda storica, e la progettualità verso il presente e verso il futuro si implicano a vicenda, coincidono in quanto modalità necessariamente coerenti fra loro di quella che potremmo definire la messa in forma dell'immaginario.
L'immaginario - la pienezza di narrazioni, di vissuti, di attese, di costruzioni di valori e modelli di comunità - riceve giusto nel progetto architettonico quella sua decisiva messa in forma che ne permette la leggibilità, che lo rende abitabile, e riesce in questa impresa tanto più in quanto riesce a fornire modelli al tempo stesso epistemicamente potenti e flessibili. Si è accennato alla struttura "a corona" o piuttosto "a spirale" che caratterizza il volume stesso, in cui i tre studi di Torricelli sono introdotti da due contributi di Marcella Aprile - già direttrice del Dipartimento di Architettura dell'Ateneo palermitano - e di Giuseppe Di Benedetto - antico collaboratore di Torricelli e oggi professore di Composizione nello stesso dipartimento - e seguiti da una postfazione dell'attuale direttore del Dipartimento, Andrea Sciascia. Ma la stessa struttura a spirale - lo stesso modo di crescere su se stesso ritornando circostanziatamente su unità tematiche e articolazioni che ricevono nuova luce dai contesti problematici di volta in volta investiti - si trova nei lavori di Torricelli, e si trova nella straordinaria immagine su cui, come ci racconta ancora Di Benedetto, tanto si è esercitata la fantasia didattica di Torricelli.
La città - il suo immaginario appunto - non è fatta solo dalle realizzazioni, dalle linee strutturali portanti che hanno avuto modo di imporsi nel tessuto urbano e da quelle che viceversa minacciano di venirne cancellate violentemente; la città è fatta anche dai progetti non realizzati ma rivelativi e vivi per la loro potenza di attrazione metaforica di universi di significato: ecco appunto l'artificiale Montagna belvedere, mai realizzata, progettata da Léon Dufourny nel 1789 per l'Orto Botanico di Palermo, carica di significati simbolici come del resto lo stesso Orto e tutta l'adiacente Villa Giulia, e capace come quelli di proporsi come una sineddoche della città: pars pro toto, schema interpretativo della città, tanto più potente proprio perché matrice di lettura, indizio per ulteriori modalità di attraversamento possibile dello sguardo, che diventa reale solo nei fenomeni che descrive.
Al linguaggio dell'architettura, a quello del discorso filosofico e storico-artistico - a fianco di Panofsky, troviamo Alois Riegl e Hans Sedlmayr; accanto a Vico, Heidegger, Peirce e Carlo Ginzburg -, a quello della letteratura e dello studio del linguaggio, si affianca anche il riferimento alla biologia e all'organismo vivente. Se quelli pocanzi citati sono notoriamente i luoghi goethiani della "scoperta" della pianta originaria - scoperta altrove spesso fraintesa perché interpretata come rinvio a un modello astratto e "puro" quando invece si tratta per Goethe di una struttura concretamente soggiacente ai fenomeni nella loro individualità - è poi a un altro grande protagonista dell'età di Goethe che va per opposizione il pensiero di Torricelli, in uno dei non rari passaggi in cui il discorso si condensa quasi in grossi riferimenti metaforici che diventano essi stessi luoghi salienti di elaborazione teorica. Alludo qui alle pagine dedicate da Torricelli all'ossicino di Cuvier (pp. 83-85), in cui - sulla falsariga di una suggestione gramsciana - si prende in considerazione il modello dell'anatomia comparata proposto da Georges Cuvier alla nuova scienza della biologia d'inizio Ottocento: quel modello appunto secondo il quale una perfetta coerenza funzionale percorrerebbe ogni elemento anatomico di un organismo, permettendo, a partire da un singolo ossicino, di risalire all'intero funzionale e dunque da lì alla struttura organica complessiva ed al suo contesto ambientale. Ebbene, dice con chiarezza Torricelli, qualcosa di simile di certo "non è possibile in architettura" (p. 85). Di fatto, come ormai ben sappiamo, meno che mai quel modello illustre risulterebbe possibile del resto nell'ambito del vivente, attraversato come esso è da una plasticità di strutture in costante divenire del tutto incomparabile col fissismo e con la teoria delle catastrofi per de-creazione radicale teorizzati da Cuvier.
La metamorfosi - suggerisce Torricelli - costituisce piuttosto il ""principio costruttivo" dell'architettura" (p. 85); un principio che non si riconduce certo unicamente a un criterio di alterazione e adattamento funzionale, ma che lascia agire su una molteplicità di piani le strutture e con loro i criteri interpretativi, e che - come la luce nella pagina di Brancati da cui abbiamo preso le mosse - permette piuttosto una modalità di ritrovamento che è anche invenzione, "carattere necessario e non più fittizio delle rappresentazioni immaginarie e dei progetti" (p. 85).
Salvatore Tedesco
Note (1) V. Brancati, Quel giorno che vidi Palermo. Il castello, in "Omnibus", 7 maggio 1938, cit. in A. Torricelli, Palermo interpretata, p. 89. Di seguito si presentano direttamente nel testo fra parentesi i riferimenti al volume.
N.d.C. - Salvatore Tedesco è professore ordinario di Estetica all'Università degli Studi di Palermo. Tra le sue pubblicazioni: Alla vigilia dell'Aesthetica, "Aesthetica preprint" n. 46, 1996; Breitinger e l'estetica dell'Illuminismo tedesco, Aesthetica preprint. Supplementa. n. 1, 1997; Studi sull'estetica dell'Illuminismo tedesco, Ed. della Fondazione Nazionale "Vito Fazio-Allmayer", Palermo 1998; L'estetica di Baumgarten, Aesthetica preprint. Supplementa. n. 6, 2000; Le sirene del Barocco, Aesthetica preprint, n. 68, 2003; Il metodo e la storia, Aesthetica Preprint Supplementa, n. 16, 2006; Forme viventi. Estetica e antropologia dell'espressione, Mimesis, Milano 2008; Morfologia estetica. Alcune relazioni fra estetica e scienza naturale, Aesthetica preprint, n. 90, 2010; Forma e forza. Cinema, soggettività, antropologia, Pellegrini ed., Cosenza 2014; Forma e funzione. Crisi dell'antropologia ed estetica della natura, Guerini, Milano 2014.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 01 SETTEMBRE 2017 |
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F. Ventura, Antifragilità (e pianificazione) in discussione, commento a I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)
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V. De Lucia, Crisi dell'urbanistica, crisi di civiltà, commento a G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)
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M. Bricocoli, Spazi buoni da pensare, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)
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