Cristina Bianchetti  
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LO SPAZIO IN CUI CI SI RENDE VISIBILI...


...e la cerbiatta di Cuarón



Cristina Bianchetti


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Il sottotitolo dell'ultimo libro di Carlo Olmo - Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose (Donzelli, 2018) - è un esplicito omaggio a Michel Foucault. Cinquantadue anni fa veniva pubblicato Les mots et les choses, un libro affabulatorio, infinito, destinato a lasciare un solco profondo in molte discipline. Un esercizio di archeologia delle scienze umane che si apre richiamando "il malessere di coloro il cui linguaggio è distrutto". I rapporti tra i discorsi nei settori scientifici definiscono ciò che Foucault chiama "episteme" di un'epoca, termine che Piaget confronterà con quello kuhniano di paradigma. Quella che il libro rilancia è una ricerca sulle parole fondative dell'Occidente, contribuendo a diffondere, negli anni Sessanta, la volontà di interrompere ogni continuità con il passato e rifondare modi di pensare e di essere. Con un impulso di radicalità che segna l'eccezionale fervore che ha preceduto il '68, condizione nella quale l'intero insieme sociale sembrava assumere l'aspetto di un'enciclopedia tassonomicamente visibile e dominabile, ad avere gli attrezzi giusti (episteme, dispositivo, norma, biopolitica …). Quasi una parodia delle celebri parole iniziali de Les mots e les choses. Senza dover necessariamente condividere l'ingombrante eredità di Foucault, a quel libro, richiamato nel sottotitolo di Città e democrazia, si può riconoscere il merito di aver dichiarato la necessità di tornare ad occuparsi delle parole, del loro peso, della loro forza, del variare dell'uno e dell'altra, del modo in cui ciascuna di esse si relaziona ai processi, agli spazi, agli attori che ne sono protagonisti o che li subiscono o ne sono ai margini. E il richiamo di Olmo, è anzitutto un ribadire questa necessità.

Sono d'accordo ed estremizzo: tra gli anni Ottanta del secolo scorso e il primo decennio di questo, anche il linguaggio delle nostre discipline è stato distrutto. O perlomeno, si è fortemente incrinato. Si sono incrinati i legami tra le parole i propri oggetti, gli spazi e i processi. In quella faglia temporale, il Novecento è davvero finito. Esplorare i territori in crisi dell'Europa urbana ha permesso di vedere la non univocità di nozioni che siamo soliti considerare strumenti facilmente maneggiabili: eredità, patrimonio, suolo produttivo, conflitto, condivisione, spazio pubblico, spazio del welfare. Concetti che, in modo pragmatico e tentativo, si ridefiniscono implicitamente e "per pezzi" dentro situazioni concrete.

Eredità, patrimonio, suolo produttivo, conflitto, condivisione, spazio pubblico, spazio del wel-fare, hanno mutato significato rispetto al modo in cui venivano utilizzati solo una ventina di anni fa. Tanto più, seguendo Olmo, ciò è accaduto alle parole città e democrazia che hanno assunto, nel tempo, significati diversi. Indissolubilmente legate nella tradizione culturale occi-dentale, sono arrivate a divergere. La parola "democrazia" ha conosciuto una crisi legata alla perdita di rapporto con lo spazio e con il limite (concetti che erano a fondamento nel definire ciò che si intende per rappresentanza e cittadinanza). La parola "città" ha mutato i significati di luoghi topici della democrazia, come la piazza, i luoghi dell'industria, svuotati e diventati un problema e insieme un'occasione per altre fondamentali "parole" che segnano quel rapporto: ricostruzione, rigenerazione, vuoto e lutto.

Da qui si può partire per affrontare il libro di Olmo. Ripensare a come parole in uso nelle nostre pratiche conoscitive e progettuali abbiano perso il loro potere di connettere fatti e processi. Abbiano perso peso, innestando fenomeni complessi (o essendone l'implicazione). Le parole che insegue Olmo sono numerose, a segnare traiettorie intrecciate: morfologia, accompagnamento, qualità urbana, patrimonio, memoria, identità. Provo a seguirne un'altra che è su un piano differente, ma, mi sembra, altrettanto rilevante nel suo discutere: la parola pedagogia.

Alcuni luoghi della città sono pensati e progettati nell'idea di costruire una pedagogia del vivere insieme, scrive Carlo Olmo. La piazza, innanzitutto: luogo materiale di conservazione di memorie collettive, oltre che scena pubblica. All'ambiguità e alla plurivocità di senso della piazza è dedicato uno dei capitoli più appassionanti del testo. La piazza è uno dei luoghi in cui la pedagogia prende corpo con più evidenza. L'urbanistica, l'architettura, il progetto, hanno avuto sempre un'anima rudemente pedagogica. Hanno immaginato di educare, proteggere, guidare entro visioni panoramiche della città, non vitalistiche e micrologiche. Hanno ritenuto di poter imporre un modo di vivere ad un pubblico da orientare e persuadere. Di come quest'anima pedagogica si sia espressa nel moderno ricordiamo tutti. Del presente siamo meno attenti: ma la ville garantie dei tanti protocolli e norme, le nuove riduzioni funzionaliste, le declinazioni coercitive delle smart cities, le pretese ecologiste che amplificano pretese educative hanno tutte questa stessa arroganza.

Lo snodo di ogni meccanismo pedagogico è lo spazio pubblico. Quello in cui ci si rende visibili reciprocamente, secondo Arendt; dove l'influenza si forma, secondo Habermas e dove si lotta per conquistarla; dove anche la vita spogliata di diritti ritrova una possibilità di forme collettive di rifiuto, secondo le critiche femministe ad Arendt e Habermas. Quel legame, fondamentalmente pedagogico tra spazio materiale e spazio della politica ha resistito a lungo riflettendosi anche nel suo contrario. Nello spazio distopico vuoto di uomini, pieno di rifiuti e animali poco domestici: la cerbiatta in Children of men di Alfonso Cuarón, per intenderci. Che non a caso si rende visibile, per pochi secondi, nei corridoi ingombri di pozzanghere e rifiuti, di una scuola abbandonata. Un'immagine potente che racconta il contrario di quel mondo, in cui ad animare lo spazio "di tutti" è un impeto pedagogico.

È noto che il cinema e la letteratura di fantascienza, dopo essersi a lungo misurati, negli anni Settanta, con i cyborg, abbiano affrontato l'incubo della perdita del futuro. Un incubo diventato, da lì in poi, il rovesciamento della versione avveniristica di quel genere letterario che aveva i suoi padri nei grandi scrittori popolari (da Ornwell a Huxley) che hanno descritto cosa eravamo destinati a diventare, quale mondo stavamo costruendo. O distruggendo. In altri termini, quale futuro ci aspettava. Negli anni successivi, la fantascienza ricompare in una versione diversa. Una sorta di nuovo neo-realismo, per usare l'ossimoro provocatorio di Goffredo Fofi: constatazione di un processo in atto. La fine è già presente. Ed è qui che la perdita (del futuro, come della cittadinanza) è introiettata nell'inconscio collettivo. Fino a rendere più facile immaginare la fine del mondo che il mutare del nostro presente.

Entro questa diversa sfera lo spazio pubblico è ancora esemplare. Ed è ancora totalmente moderno, anche se nega il futuro che il moderno aveva la pretesa di costruire. Lo spazio pubblico contemporaneo ha, a suo modo, violato entrambe queste forme e con esse, ogni residuo di pedagogia.

Si può discutere del libro di Olmo, da questo punto di vista. Lo spazio pubblico come spazio pedagogico è un'idea che si è sfaldata. E non solo perché l'orto sostituisce la piazza. O il gardening, lo stare nella sfera pubblica habermasiana. L'entre nous, l'entre voisins, il vivere in piccole cerchie, tra amici, tra vicini, le minuscole utopie cooperative in cui individui destinati alla solitudine si impegnano in un mutuo soccorso: tutto questo ci dice che l'idea universalista dello spazio pubblico e della sua pedagogia è alle nostre spalle. Si è incrinata l'accezione arendtiana dello spazio pubblico come condizione universalista del rendersi visibili reciprocamente. Come si è incrinata l'accezione habermasiana del pubblico come luogo nel quale l'influenza si forma e dove si lotta per conquistarla. Neppure le critiche femministe, su chi sorveglia la sfera dell'apparire, sembrano procedere. Oggi la cura e la pedagogia avvengono entro una diversa grammatica del vivere insieme, in una società segnata da compresenza e pluralità di preferenze, valori, soggetti, ma da una fondamentale assenza di intenzionalità comuni. Le conseguenze sullo spazio pubblico e sul suo progetto non possono che essere radicali. E il problema diventa, come il libro suggerisce, far convivere i tanti particolarismi con forme ormai sdrucite di rappresentanza che non corrispondono necessariamente a un'idea di pubblico. In senso deweyano, credo di intendere.

Per Olmo il punto di partenza per capire i nessi tra città e democrazia è, di nuovo foucaultia-namente, vedere la verità come sapere costruito storicamente. Lo si coglie bene quando nel primo capitolo sottolinea la necessità di riprendere una discussione sulla "complessità". Una discussione che non abdichi al governo come ingegneria istituzionale, a visioni tecnocratiche dello spazio pubblico o al multiculturalismo accomodante. Vedere la verità come sapere costruito storicamente implica un duro lavoro di scavo, così come Olmo ci ha abituato ad aspettarci dai suoi testi. Ma lo scavo, al quale egli non mostra di credere molto, può essere anche condotto nell'indagine e nel progetto. Le parole si ricostruiscono anche lì, "in situazione" come si diceva una volta. Dove è più drammatico il rapporto tra la competenza e la rappresentanza (così Alessandro Pizzorno in conversazione con Bernardo Secchi e Pier Luigi Crosta). Ovvero entro l'ambito di un sapere urbanistico certo un po' ammaccato, al franare delle sue parole (e non solo). Ma che sarebbe un errore pensare abbia esautorato le sue ragioni.

Cristina Bianchetti

 

 

N.d.C. - Cristina Bianchetti, professore ordinario di urbanistica al Politecnico di Torino, è stata coordinatore dell'area dell'Architettura per la VQR (2011-2014) ed è presidente del Nucleo di Valutazione dell'Università Iuav di Venezia. Tra le sue pubblicazioni: Abitare la città contemporanea (Skira, 2003); Urbanistica e sfera pubblica (Donzelli, 2008); Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull'urbanistica (Donzelli, 2011); (a cura di) Territori della condivisione. Una nuova città (Quodlibet, 2014); Spazi che contano. Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale (Donzelli, 2016).

Dell'ultimo libro di Cristina Bianchetti si è discusso alla Casa della Cultura il 9 maggio 2017 - con Vittorio Gregotti, Giancarlo Paba e Pier Carlo Palermo - nell'ambito della V edizione di Città Bene Comune. Sullo stesso libro v. i commenti di: Francesco Indovina, Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Massimo Bricoco-li, Spazi buoni da pensare (4 maggio 2017) e Pier Carlo Palermo, Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto (30 giugno 2017).

Per Città Bene Comune, Cristina Bianchetti ha scritto: La ricezione è un gioco di specchi (6 ottobre 2017).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

05 OTTOBRE 2018

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018:

F. Ventura, Sapere tecnico e etica della polis, commento a: S. Settis, Architettura e democrazia (Einaudi, 2017)

P. Pileri, L'urbanistica deve parlare a tutti, commento a: Anna Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Indovina, Non tutte le colpe sono dell'urbanistica, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)

M. Balbo, Disordine? Il problema è la disuguaglianza, commento a: F. Indovina, Ordine e disordine nella città contemporanea (FrancoAngeli, 2017)

R. Milani, Viaggiare, guardare, capire città e paesaggi, commento a: C. de Seta, L'arte del viaggio (Rizzoli, 2016)

F. Gastaldi, Un governo del territorio per il Veneto?, commento a: M. Savino, Governare il territorio in Veneto (Cleup, 2017)

G. Nuvolati, Tecnologia (e politica) per migliorare il mondo, commento a: C. Ratti, La città di domani (con M. Claudel, Einaudi, 2017)

F. Mancuso, Città come memoria contro la barbarie, commento a: A. Zevi, Monumenti per difetto (Donzelli, 2014)

M. Morandi, Per una Venezia di nuovo vissuta, commento a: F. Mancuso, Venezia è una città (Corte del Fontego, 2016)

R. Pavia, Leggere le connessioni per capire il pianeta, commento a: P. Khanna, Connectography (Fazi, 2016)

G. Consonni, In Italia c'è una questione urbanistica?, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)

M. Romano, Memoria e bellezza sotto i cieli d'Europa, commento a: S. Settis, Cieli d'Europa (Utet, 2017)

V. Biondi, La nuova crisi urbana negli USA, commento a: R. Florida, The New Urban Crisis (Basic Books, 2017)

P. Colarossi, Per un ritorno al disegno della città, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2012, rist. 2015)

A. Clementi, In cerca di innovazione smart, commento a: C. Morandi, A. Rolando, S. Di Vita, From Smart Cities to Smart Region (Springer, 2016)

P. Pucci, La giustizia si fa (anche) con i trasporti, commento a: K. Martens, Transport Justice. Designing fair transportation systems, (Routledge, 2017)

E. Trusiani, Ritrovare Mogadiscio, commento a: N. Hagi Scikei, Exploring the old stone town of Mogadishu (Cambridge Scholars Publishing, 2017)

A. Villani, Post-metropoli: quale governo?, commento a: A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci, Oltre la metropoli (Guerini, 2017)

R. Cuda, Le magnifiche sorti del trasporto su gomma, commento a: M. Ponti, Sola andata (Egea 2017)

F. Oliva, Città e urbanistica tra storia e futuro, commento a: C. de Seta, La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi (Longanesi, 2017) e La città, da Babilonia alla smart city (Rizzoli, 2017)

J. Gardella, Attenzione al clima e alla qualità dei paesaggi, commento a: M. Bovati, Il clima come fondamento del progetto (Marinotti, 2017)

R. Bedosti, A cosa serve oggi pianificare, commento a: I. Agostini, Consumo di luogo (Pendragon, 2017)

M. Aprile, Disegno, progetto e anima dei luoghi, commento a: A. Torricelli, Quadri per Milano (LetteraVentidue, 2017)

A. Balducci, Studio, esperienza e costruzione del futuro, commento a: G. Martinotti, Sei lezioni sulla città (Feltrinelli, 2017)

P. C. Palermo, Il futuro di un Paese alla deriva, riflessione sul pensiero di Carlo Donolo

G. Consonni, Coscienza dei contesti come prospettiva civile, commento a: A. Carandini, La forza del contesto (Laterza, 2017)

P. Ceccarelli, Rappresentare per conoscere e governare, commento a: P. M. Guerrieri, Maps of Delhi (Niyogi Books, 2017)

R. Capurro, La cultura per la vitalità dei luoghi urbani, riflessione a partire da: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2017)

L. Ciacci, Il cinema per raccontare luoghi e città, commento a: O. Iarussi, Andare per i luoghi del cinema (il Mulino, 2017)

M. Ruzzenenti, I numeri della criminalità ambientale, commento a: Ecomafie 2017 (Ed. Ambiente, 2017)

W. Tocci, I sentieri interrotti di Roma Capitale, postfazione di G. Caudo (a cura di), Roma Altrimenti (2017)

A. Barbanente, Paesaggio: la ricerca di un terreno comune, commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Ventura, Su "La struttura del Paesaggio", commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

V. Pujia, Casa di proprietà: sogno, chimera o incubo?, commento a: Le famiglie e la casa (Nomisma, 2016)

R. Riboldazzi, Che cos'è Città Bene Comune. Ambiti, potenzialità e limiti di un'attività culturale

 

 

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