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URBANISTICA: UNA PRATICA PIÙ CHE UNA DISCIPLINA
Replica a Francesco Indovina
Domenico Patassini
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La nota di Francesco Indovina sul libro di Ilaria Agostini e Enzo Scandurra - Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018) e sulla recensione di Giancarlo Consonni apparsa in questa rubrica - In Italia c'è una questione urbanistica? (15 giugno 2018) - consente alcuni approfondimenti sul mutevole rapporto fra tecnica e politica, nello specifico, sulle questioni della 'scelta urbanistica'. Per il modo in cui si sviluppa e si impone, la tecnica non è neutra, né neutrale: crea il nostro habitat e trasforma le nostre abitudini da sempre, anche se quanto sta accadendo nel mondo reticolare contemporaneo non è soltanto questione di 'intensità', ma di nuove e incontrollabili appartenenze a diverse forme di interazione. Così la tecnica crea l'ambiente in cui viviamo, ne ostacola il rifiuto spuntando le stesse frecce della critica, aggiorna in modo parossistico i linguaggi. Mi sembra condivisibile l'opinione di chi riconosce 'abitare la tecnica' come irrimediabile e fortemente inerziale; la difficoltà, se non l'impossibilità, di rintracciare l'essenza e il senso dell'essere umano al di là del condizionamento tecnico. La politica non è esente da questo condizionamento e la città, che della politica è una espressione mentale e sociale prima che fisica, ne vive le dinamiche con diversa energia. Nell'urbanistica e nelle pratiche di pianificazione questo condizionamento è particolarmente forte in quanto convivono rappresentazione e vissuto. Qui le scelte manifestano in modo articolato tecnica, pratica e responsabilità.
L'urbanistica (e a maggior ragione la pianificazione che la contiene) può essere intesa come 'conflitto' fra priorità, scenari, strategie, regole e assetti concorrenti. Queste 'concorrenze' emergono da congiunture e da interazioni sociali, in particolare da istanze relazionali e da interpretazioni non necessariamente esprimibili in termini logico-formali o disciplinari. Nella loro diversità, le 'concorrenze' possono generare condizioni di conflittualità e il conflitto, condizione cognitiva ed esito irrinunciabile, può essere interpretato e/o vissuto in modo dialogico, oppure narrato e/o rappresentato con l'ausilio di modelli o 'figure'. Se ci si limita alla rappresentazione, o ad essa si dà particolare rilevanza, si ricorre ad approcci orientati all'evidenza (evidence based - EV). Questi approcci, accolti da diverse discipline, ritengono che l'unica misura di verità sia la conoscenza fondata sull'oggetto. Se, invece, il conflitto viene interpretato, vissuto come esperienza, si entra in quello che una certa filosofia pratica definisce 'approccio orientato alle pratiche' (o practice-based - PV): un processo di adattamento più che di conoscenza e veridicità. Mentre in EV l'urbanista e il pianificatore rappresentano e operano sul conflitto, 'fiduciosi' nei propri appoggi scientifici e razionali (disciplinari), in PV sono direttamente implicati come interpreti nel processo: partecipano all'evento, vivono la sua storia e i suoi linguaggi. Con l'interpretazione si può orientare, semplificare o complicare il conflitto. E se, per particolari ragioni (di convenienza o di parte), urbanista e pianificatore intendono garantirsi una presunta neutralità, non hanno altra possibilità che rinunciare al dialogo o alla conversazione, uscire dall'interazione e restarsene in silenzio con i loro inerti tools. La plausibilità e la qualità dell'urbanistica e della pianificazione sono condizionabili dal modo in cui si sviluppa il conflitto, oltre che dal modo in cui viene rappresentato o vissuto in prospettiva EV o PV. Vivere il conflitto o limitarsi a rappresentarlo non è una scelta, ma una possibilità data dall'interazione sociale, dall'impossibilità di concepire un soggetto (o un oggetto) al di fuori dei possibili nessi con gli altri. E su questo la tecnica opera in modo pervasivo. In sintesi: urbanistica e pianificazione sono 'conflitto' in entrambe le prospettive, non sono 'discipline esterne', anche se i contenuti tecnici possono giocare in esse un ruolo diverso.
In queste condizioni può maturare la 'scelta' (non è scontata, come evidenziano gli innumerevoli 'stalli'), e manifestarsi la sua dimensione sociale. È noto che la teoria della scelta sociale (nelle sue diverse accezioni) cerca di rispondere definendo una pluralità di diritti con esplicito riferimento agli esiti (legati cioè a combinazioni di diverse 'concorrenze'). Così una concezione non trascendentale della libertà (à la Rawls) tende a concentrarsi sul processo, finendo con il mutuare dalla teoria dei giochi (in senso lato) l'idea di 'forma di gioco'. In un gioco ogni individuo dispone di un insieme di azioni o strategie ammissibili e il risultato dipende dalla scelta. Qui i requisiti di libertà si caratterizzano come restrizioni sulle scelte d'azione o di strategie ammissibili (ciò che possiamo fare), ma anche in termini di esiti accettabili (ciò che possiamo ottenere). L'urbanistica e la pianificazione cercano di mediare fra l'ammissibile e l'accettabile, aggiornando nel continuo il gioco fra tecnica e politica, influendo in modo congiunto sulla natura e l'intensità dei conflitti. La 'scelta urbanistica' non si pone rispetto a 'un modello di città ideale', anche se questo sfondo potrebbe assumere (ed ha assunto più volte in passato) significati culturali e operativi, ha suggerito scenari comparativi e sistemi di valore. La scelta urbanistica si pone di norma rispetto a trasformazioni in atto anche quando si occupa di 'città nuove'.
Secondo Indovina, la scelta urbanistica sarebbe una scelta politica tecnicamente assistita, che richiede da un lato la legittimazione politica di scelte generali e dall'altro la legittimazione politica dello stesso decisore. Indovina dice che 'la legittimazione della politica non riguarda le scelte specifiche e puntuali di organizzazione urbana quanto, piuttosto, gli indirizzi di evoluzione della città, la qualità dei servizi, la relazione da costruire tra bisogni della popolazione e servizi pubblici offerti. Cioè la definizione di un quadro di riferimento sull'evoluzione dell'organismo urbano e sugli indirizzi di questa evoluzione. Non dovrebbe trattarsi di un potere decisionale sulle specifiche realizzazioni quanto, piuttosto, di un indirizzo denso di contenuti sulla dinamica futura di quella specifica città'. Mi chiedo da dove possa venire questo 'indirizzo denso di contenuti sulla dinamica futura'. Chi si occupa di scenari cade spesso nelle trappole tese dalle previsioni, dalle proiezioni e dagli auspici, soprattutto se 'costruiti' o configurati in prospettiva pluralista. E, nella loro costruzione, processi interattivi e iterativi contribuiscono a definire semantiche e metriche, anche inedite, aggiornano gli stessi concetti di auto-organizzazione, democrazia o partecipazione, consigliando l'abbandono di configurazioni parametriche, di modelli manageriali o visioni da 'principe illuminato'. Non mi sembra che i 'documenti preliminari' al piano introdotti in molte legislazioni regionali in Italia svolgano un ruolo rilevante in proposito. A volte sono l'espressione di una doppia irresponsabilità: quella del committente e quella del tecnico urbanista. Ma l'opinione di Indovina, ove separa il preliminare tecnico dalla scelta, tende a caricare di valore politico la scelta, riducendo l'urbanistica a tecnica ancillare, di supporto, utile a predisporre quanto occorre per effettuare una scelta. Mi sembra una ipotesi riduttiva che, se ha il pregio di 'resistere' alla crisi dell'urbanistica, ne confina in modo drastico il dominio. In realtà, il supporto tecnico é tanto più efficace quanto più interagisce con le opzioni di scelta, nel loro dominio costruttivo e comparativo. Il decisore verrà legittimato nell'azione che compie e risponderà a quanto previsto istituzionalmente se riuscirà a tenere insieme politica e tecnica, a cogliere il contenuto tecnico della politica e il contenuto politico della tecnica. Con gli inevitabili connotati di parte, le istanze di partecipazione sembrano ribadire questa condizione. L'interazione fra scelta e tecnica non è certo condizione necessaria e sufficiente di buon governo, ma proporre la distinzione fra scelta politica e tecnica urbanistica potrebbe rendere irresponsabile sia la scelta politica che la tecnica urbanistica. E, purtroppo, il nostro territorio documenta questa distinzione presentandosi come un cimitero di irresponsabilità.
Che 'la città sia uno dei terreni principali nel quale si manifestano i conflitti sociali' non solo in termini di 'occupazione di spazio' (in parte in ragione di…) è un concetto che richiederebbe qualche aggiornamento. La complessità dei conflitti tende, infatti, ad aumentare con lo scollamento della 'città come mente' dalla città come assetto fisico-funzionale, con l'emergere di inedite configurazioni delle coppie 'fissità- movimento'. È anche scontato che l'organizzazione urbana e i suoi assetti non siano omologabili 'a un solo interesse o agli interessi di un solo gruppo sociale'. Ciò non esclude che in molti casi operino 'regimi urbani' molto influenti che assumono caratteristiche oligo- o monopolistiche tipiche dei blocchi di potere immobiliare, finanziario o digitale, capaci di usare l' urbanistica corrente in operazioni 'estrattive', come accade con il modello di smart city neoliberista. Questi attori sono in grado di proporre una propria urbanistica ovunque (dal piccolo centro storico alla megacittà e oltre), con soluzioni estetiche, tecniche e funzionali generalmente estranee a plausibili 'geografie dell'architettura e della città'. Ma sono anche in grado di trasformare i cosiddetti 'diritti alla città', obbligando le amministrazioni, i movimenti e gli stessi progetti formativi universitari ad aggiornarsi su temi su cui la vecchia tecnica urbanistica si trova in affanno o ha ben poco da dire. E non si tratta di una 'cultura' meramente antitetica a quella dei fondamenti (ancorati a 'ribaditi' sistemi di valori e di giustizia), ma di strategie che tendono a trasformare gli insediamenti umani (e non solo le città) in sistemi operativi di natura proprietaria. L'antagonismo e il conflitto sempre più duro influiscono sulla qualità insediativa e sulle differenze in cui la qualità viene vissuta (sui diritti ad una entità sempre più difficile da riconoscere), ponendo domande alla politica e alle capacità dell'urbanistica di rispondere con ammissibili e accettabili configurazioni mentali, oltre che spaziali.
Per Indovina 'la qualità sociale di una città non può essere attribuita a una specifica qualità dell'urbanistica'. Questa affermazione mi sembra condivisibile solo in parte almeno per due ragioni. Da un lato occorrerebbe riconoscere di che tipo di urbanistica si sta parlando e di chi la propone e la usa. Dall'altro, l'affermazione tende a ridurre l'urbanistica a tecnica (a disciplina) e a ribadirne una presunta neutralità rispetto alla politica. In realtà, l'urbanistica, come la pianificazione, è un processo sociale la cui dimensione tecnica è subordinata allo sviluppo delle nuove tecnologie della rappresentazione e della comunicazione, al modo in cui e alle ragioni per cui queste condizionano le interazioni sociali. Ciò riconosce l'urbanistica come uno dei possibili strumenti per il governo delle trasformazioni, non necessariamente il più efficace, efficiente e giusto, legato a doppio vincolo alla politica. Basta leggere la documentazione tecnica di un piano o di un progetto urbanistico (bandi, testi, mappe, data base, norme, valutazioni e stime, ecc.) per evidenziarne l'immediato contenuto politico: giuridico, di parte, critico, negoziale, strategico, e così via. Nemmeno le parole più semplici (o apparentemente tali) come 'costruito', 'uso del suolo', 'espansione', 'indice', 'infrastruttura' o 'standard' sfuggono a questo doppio vincolo.
In conclusione, credo sia un esercizio utile (anche se non innovativo) sottrarre l'urbanistica e le sue 'pratiche progettuali' da vincoli 'disciplinari', dalla dimensione tecnica e dalla mera routine. In quanto 'attività politico-culturale', l'urbanistica non può essere neutra, 'pone problemi di scelta e di alternative', interagisce con 'gli indirizzi politici espressi dalla pubblica amministrazione' e da molti altri soggetti. L'urbanistica riformista ne è stato un esempio, prima della ritirata dello Stato. Ma sono esempi interessanti anche l'urbanistica di parte o radicale, oggi in crescita in contesti diversi e in molte parti del mondo: dove si riconosce l'informalità come sorgente di nuove regole di uso del suolo e di accesso ai servizi di base, dove si combattono in modo aperto le diseguaglianze sociali o dove si apprezzano singolari 'testimonianze', non solo professionali e per nulla disciplinari. Successi e fallimenti invitano a guardare all'urbanistica come pratica, più che come disciplina, interpretando le circostanze in cui si è alleata a visioni, a tecnologie e a poteri. È quanto emerge da interessanti ricerche e da vivaci dibattiti non solo nel nostro paese.
Domenico Patassini
N.d.C - Domenico Patassini, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica allo IUAV di Venezia, è stato preside della Facoltà di Pianificazione della stessa università. Attualmente insegna Cultura della valutazione e fa parte del Collegio docenti del dottorato in 'Nuove tecnologie: territorio e ambiente'. È stato presidente della Associazione Italiana di Valutazione (AIV) ed è tuttora membro del comitato editoriale della rivista "Rassegna Italiana di Valutazione" e della relativa collana edita da FrancoAngeli. Ha svolto attività professionale come pianificatore e come formatore in Italia e all'estero, in particolare in Africa.
Tra i suoi libri: con M. Reho (a cura di), Problemi e strumenti di governo regionale del settore agricolo (Commerciale Venezia, 1981); con M. Reho, Assetto territoriale e mercato del lavoro agricolo (IUAV Daest, 1982); con M. Torres, Segmentazione del sistema abitativo (IUAV Daest, 1983); con L. Vettoretto e M. Torres, Transazioni immobiliari 1979-1981 (IUAV Daest, 1983); con M. Reho (a cura di), Geografia delle trasformazioni nel mercato del lavoro agricolo (IUAV, 1984); con C. Diamantini, Addis Abeba. Villaggio e capitale di un continente (FrancoAngeli, 1993); con C. Diamantini (a cura di), Urban Ethiopia: evidences of the 1980s (IUAV, 1996); con C. Giacomini (a cura di), Venezia su ruota? Logiche valutative in un'esperienza didattica (IUAV, 1996); con Stefano Ciurnelli (a cura di), Analisi e scenari di mobilità a Bassano del Grappa (IUAV, 1997); con I. Jogan (a cura di), Procedure digitali per la pianificazione ambientale (Il Rostro, 2000); con D. Miller (a cura di), Beyond benefit cost analysis: accounting for non-market values in planning evaluation (Ashgate, 2005); (a cura di), Esperienze di valutazione urbana (FrancoAngeli, 2006); con S. Moroni (a cura di), Problemi valutativi nel governo del territorio e dell'ambiente (FrancoAngeli, 2006); con Igor Jogan (a cura di), Lo spazio europeo a livello locale (INU, 2006); con A. Gattei, E. Orlandin, M. P. Robbe (a cura di), Dalla legge regionale n. 61 del 1985 alla nuova legge urbanistica regionale n. 11 del 2004. Elementi per una valutazione dei processi di pianificazione (Regione Veneto, 2008); con E. Fontanari (a cura di), Paesaggi terrazzati dell'arco alpino. Esperienze di progetto (Marsilio, 2008); (a cura di), Contaminazione, rischio e stigma. Bonifica a Porto Marghera (Marsilio, 2011); con A Chemin, E Fontanari, Osservatorio sperimentale per il paesaggio del Canale di Brenta (Urban Press, 2012); Esplosione urbana in Africa (Urban Press, 2012).
Per Città Bene Comune ha scritto: Lo spazio urbano tra creatività e conoscenza (27 ottobre 2017)
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R
© RIPRODUZIONE RISERVATA 14 DICEMBRE 2018 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale
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