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INTEGRAZIONE E WELFARE: OBIETTIVI DI PROGETTO
Commento al libro di Lucina Caravaggi e Cristina Imbroglini
Giuseppe Fera
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Il libro di Lucina Caravaggi e Cristina Imbroglini - Paesaggi socialmente utili. Accoglienza e assistenza come dispositivi di progetto e trasformazione urbana (Quodlibet, 2016) - è il racconto di una ricerca, qualcosa che recentemente si fa sempre più fatica a incontrare nelle riviste di settore o nelle collane di urbanistica. Così mi accingo a una lettura che so non sarà né veloce, né facile perché il racconto di una ricerca non può essere sbrigativo: necessita di chiarire il quadro concettuale, gli obiettivi, l'impostazione del problema, le fonti e altre cose utili a dimostrarne la scientificità. La restituzione in poche righe di questo racconto, poi, potrebbe perfino essere complicata: ci provo comunque chiedendo anticipatamente venia se a un certo punto non si capirà bene se ciò di cui sto scrivendo è il reale pensiero delle Autrici, una mia personale interpretazione o mie autonome considerazioni.
Fin dal titolo si comprende che il libro tratta di uno dei temi chiave per il futuro della nostra società: la possibilità di mantenere in vita, mediante opportuni processi di revisione, il modello di Stato sociale costruito in Europa nel corso dell'ultimo secolo. Nell'introduzione si evidenziano i riferimenti culturali generali sui quali si fonda la ricerca: si tratta di un'interessante e generale riflessione sul welfare state, sull'evoluzione della sua natura e dei suoi modelli organizzativi dal XIX secolo fino ai giorni nostri, quando emergono criticità tali da rischiare di distruggere quanto realizzato fin qui. Le Autrici ne individuano tre fondamentali: l'invecchiamento della popolazione, l'incremento tumultuoso dei flussi migratori (per ragioni economiche o politiche) e le nuove povertà generate dalla crisi economica. La grande e in apparenza insanabile contraddizione a cui ci troviamo di fronte riguarda il fatto che a un incremento della domanda di protezione sociale corrisponde una sempre minore capacità di trovare le risorse necessarie per farvi fronte. Infatti, per effetto dell'allungamento della vita media, un numero sempre crescente di anziani richiede cure mediche e pensioni che devono essere "pagate" - se così si può dire - da una popolazione in età lavorativa che si va riducendo, in un periodo in cui cresce il numero dei disoccupati, dei poveri, degli immigrati bisognosi di aiuto e al tempo stesso, l'indebitamento pubblico ha raggiunto nel nostro Paese livelli prossimi all'insostenibilità. A fronte di tale sconfortante quadro, la strada indicata dalle due autrici è quella di un ridisegno delle attuali politiche di welfare, oggi affidate in larghissima parte allo Stato e alle sue risorse, nella direzione di un welfare di comunità, un sistema in cui insieme allo Stato anche le comunità si fanno carico del sostegno ai più deboli, ai più poveri, ai disabili, agli anziani in difficoltà. Quello che Caravaggi e Imbroglini immaginano è un welfare in cui anche gli stessi beneficiari, cioè i soggetti più deboli, contribuiscono con le loro capacità, le loro abilità, il loro impegno all'ideazione ed all'attuazione delle relative politiche.
Nel libro ricorre un'idea particolarmente interessante - soprattutto per chi come me ha affrontato da anni questo tema riferendolo ai fenomeni sismici ed idrogeologici - che è quella della prevenzione del rischio. Così come il miglior modo di limitare i possibili danni derivanti da futuri terremoti o alluvioni è quello di prevenirli attraverso adeguate politiche del territorio o di messa in sicurezza del patrimonio edilizio, i rischi di natura economica e sociale - restare senza lavoro, ammalarsi, ecc. - possono, secondo le Autrici, essere mitigati mediante adeguate azioni di prevenzione. Più ancora che nella difesa del territorio, il tema della prevenzione è entrato e si è ampiamente consolidato nella sfera delle politiche sanitarie - come strumento per impedire l'insorgere di determinate patologie o intervenire quando le stesse possono essere più efficacemente contrastate - diminuendo disagi e sofferenze ma anche riducendo i costi sociali di cure spesso assai costose. Questo concetto della prevenzione viene esteso dalle Autrici a tutto il campo dei rischi sociali e all'intero ciclo di vita, o meglio - come si puntualizza nel libro - al "percorso di vita", sostituendo l'idea di ciclo biologico con quello di percorso attivo.
Nell'arco del percorso di vita di ognuno di noi si individuano tre tappe fondamentali, infanzia/giovinezza, maturità e anzianità/vecchiaia, ognuna delle quali ha specifici rischi che possono modificare negativamente la nostra esistenza: dall'abbandono scolastico all'impossibilità ad accedere alla formazione, dal bullismo alla droga per le giovani generazioni, dalla perdita del lavoro per gli adulti alla salute o alla mancanza di un reddito per adulti e anziani. Joseph Stiglitz scriveva anni fa che il cattivo welfare impedisce di sviluppare il potenziale produttivo e creativo che c'è in ogni individuo. Questa sembra essere la filosofia che ha guidato il lavoro di Caravaggi e Imbroglini che ci invitano a un atteggiamento che non si limiti al semplice obiettivo del risparmio economico ma tenga presente l'obiettivo fondamentale di valorizzare la principale risorsa delle società contemporanee: il capitale umano. La prevenzione dei rischi sociali durante le diverse fasi della vita di ogni individuo, le azioni necessarie di protezione quando il rischio non si è potuto evitare, ma soprattutto l'attivo coinvolgimento dei soggetti direttamente interessati, delle loro famiglie, delle comunità territoriali di cui fanno parte devono, secondo le Autrici, essere pensate e immaginate come un processo di valorizzazione del capitale umano finalizzato tanto a prevenire il disagio, quanto a valorizzare e promuovere lo sviluppo. Caravaggi e Imbroglini sostengono cioè che quelli che nell'immediato appaiono dei costi, se visti in una prospettiva sociale diversa e di lungo periodo, possono di fatto essere considerati investimenti.
Il filone principale della ricerca è dedicato ai rapporti fra welfare e città/territorio o, in altri termini, al ruolo della dimensione urbana e ambientale all'interno della complessiva idea del "benessere individuale e collettivo". A parte il Rapporto Chadwick - che nel 1830 aveva concentrato la sua attenzione sul valore dei parchi urbani come strumento terapeutico - fra i primi contributi in questa direzione che io ricordi vi è certamente quello di Engels che, nella sua inchiesta su La condizione della classe operaia in Inghilterra del 1845, fornì un quadro straordinario del "malessere" provocato dal degrado ambientale e dalle misere condizioni abitative in cui era costretta a vivere un'ampia parte della popolazione d'oltremanica. Da allora i contributi che hanno esplorato l'impatto dell'ambiente urbano (e non solo urbano) sul benessere dei cittadini sono stati numerosi tanto che oggi la sua qualità - in termini di salubrità, sicurezza e confort - è ampiamente considerata, al pari del reddito, quale voce fondamentale per valutare ricchezza e benessere di una comunità, superando perfino il parametro del Pil. Il community welfare a cui pensano Caravaggi e Imbroglini non è dunque fatto unicamente di spazi architettonici e urbani concretamente misurabili, ma - come indicato nel titolo - di paesaggi. È cioè il prodotto dell'interazione fra spazio e comunità, qualcosa di meno definibile oggettivamente ma che sicuramente deriva dall'uso dei luoghi collettivi e dal loro adattamento ai bisogni umani.
È chiaro che le risposte alla sempre più complessa e articolata domanda di welfare non possono che venire da una corretta dialettica fra vertice (Stato, Regioni) e base (comunità locali). Ma se - come fanno le Autrici - poniamo al centro del nostro discorso la capacità di elaborare risposte dal basso - il ruolo che possono svolgere le comunità, molteplici e diverse per cultura, capacità organizzative, possibilità economiche - allora appare quasi scontata l'impossibilità di costruire modelli organizzativi in astratto, pre-confezionare risposte puramente teoriche senza un concreto confronto con la realtà. Secondo le Autrici è cioè necessario partire dalle soluzioni differenti e articolate che le comunità locali, o i gruppi sociali interni ad esse, stanno già elaborando e mettendo in campo. Apprendere dal territorio è cioè il suggerimento che viene dal libro che analizza - con ricchezza di casi e di documentazione anche fotografica - cosa si sta facendo in questa direzione a Roma e nel Lazio. Questo partire dalla singolarità delle diverse esperienze concrete non significa rinunciare a una sintesi, sottrarsi alla necessità di indicare una possibile strategia generale. Indica piuttosto un atteggiamento progettuale che, oltre a considerare le criticità ricorrenti, intende fare tesoro delle esperienze, delle risposte diffuse e spesso spontanee messe in atto. È dunque sulla base di questo concreto background che le Autrici suggeriscono alcune linee di intervento che le istituzioni pubbliche (Stato , Regioni, Comuni, ecc..) potrebbero assumere e sviluppare per migliorare le loro politiche nel campo del welfare e rendere più efficaci i loro sforzi.
Tra i fari che sembrano aver orientato il lavoro di Caravaggi e Imbroglini c'è quello della ricerca di integrazione sociale, intesa tanto dal punto di vista spaziale quanto da quello temporale. Temporale perché - abbiamo detto prima - secondo le Autrici sarebbe possibile migliorare l'attività di prevenzione - ovvero la riduzione delle vulnerabilità sociali, individuali e collettive - costruendo risposte organiche per tutti i cittadini di una comunità. Spaziale perché la risposta suggerita non va nella direzione di prevedere strutture specialistiche "dedicate" a singole situazioni critiche ma, piuttosto, verso quella di immaginare edifici e spazi pubblici plurifunzionali e più neutrali in grado di sfruttare le potenzialità - anche quelle di chi è in condizioni di disagio - di aiutare gli altri in modo da prevenire situazioni di isolamento e di ghettizzazione. Si tratta, in altri termini, di favorire attraverso il progetto architettonico e urbanistico, le politiche pubbliche o i modi d'uso spontanei l'idea di una maggiore integrazione fra le strutture dedicate all'assistenza e il contesto urbano, garantendo una maggiore e più adeguata apertura verso le comunità che possono svolgere un fondamentale ruolo di sostegno. Da qui l'idea, assolutamente condivisibile, di inserire i temi dell'assistenza, del welfare sociale, all'interno di grandi contenitori collettivi di natura più generale, per esempio di tipo culturale o ricreativo.
Se si parla di integrazione sociale, però, non possiamo fingere di non sapere che la miglior forma è quella che deriva dal lavoro. Il lavoro è ciò che consente a ogni individuo di essere parte e di riconoscersi in una comunità. Di contro, la perdita del lavoro è una delle principali criticità che le politiche sociali devono oggi affrontare, che ha costi altissimi a livello personale (alienazione, depressione, ecc..) e per la società nel suo complesso (cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, ecc.). Ecco perché il ricorso a politiche integrate con il mondo del lavoro nel libro è giustamente suggerito e auspicato come un formidabile strumento per combattere questo tipo di disagio, per superare le difficoltà psicologiche e sociali che comporta, per dare un senso all'esperienza che attraversa chi si trova in questa situazione, per legare il più debole al resto della comunità territoriale. Un approccio che, oltre ad assumere una portata innovativa nella creazione di nuovi mestieri, figure professionali o nella riscoperta di vecchi lavori artigianali, potrebbe rappresentare un primo momento del processo di integrazione del giovane immigrato, promuovere l'auto-recupero e il riuso di spazi e strutture in disuso da dedicare alle attività del welfare comunitario.
Bernardo Secchi in un suo articolo su "Urbanistica" di qualche anno fa (n° 139 del 2009) tracciava, nella maniera profonda e mai banale che gli era propria, un quadro delle questioni che la nostra società deve affrontare per costruire un nuovo welfare. La condizione di grande incertezza che stiamo vivendo gli faceva concludere laconicamente che fosse "per questo, forse, che occorre fare ricerca". Lucina Caravaggi e Cristina Imbroglini hanno preso sul serio questo suggerimento e c'è da augurarsi che altri ricercatori e studiosi seguano il loro esempio.
Giuseppe Fera
N.d.C. - Giuseppe Fera è professore ordinario di Urbanistica all'Università Mediterranea di Reggio Calabria. È direttore scientifico del Community Design Laboratory presso la stessa università e dirige la collana "Città Paesaggi Territori" edita da FrancoAngeli. Tra i suoi libri: con A. Busca, D. De Stefano, F. Karrer, Urbanizzazione e settore edilizio nel Mezzogiorno (Casa del Libro, Reggio Calabria 1977); con N. Ginatempo, L'autocostruzione spontanea nel Mezzogiorno (F. Angeli, Milano 1985); La città antisismica; storia, metodologie, prospettive (Gangemi, Roma 1990); Urbanistica, teorie e storia (Gangemi, Roma 2002); Comunità, Urbanistica, Partecipazione. Materiali per una pianificazione strategica comunitaria (FrancoAngeli, Milano 2008); con Alberto Ziparo (a cura di) Pianificazione territoriale paesaggistica e sostenibilità dello sviluppo (F. Angeli, milano 2014) e Lo Stretto in lungo e in largo (Università di Reggio Calabria 2016)
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 13 OTTOBRE 2017 |
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