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UNO SCATTO DI 'COSCIENZA STORICA' PER LE CITTÀ
Commento al libro curato da Gianfranco Pertot e Roberta Ramella
Maria Antonietta Crippa
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Quale curiosità o invito ad agire - nel cittadino colto; in studenti di architettura e ingegneria, ma anche di sociologia, economia e altro ancora; in amministratori, politici e professionisti, milanesi ma non solo - può provocare il libro curato da Gianfranco Pertot e Roberta Ramella - Milano 1946. Alle origini della ricostruzione (Silvana Editoriale 2016) - che amplia, con approfondimenti di grande interesse, studi e riflessioni, numerose in questi ultimi anni, sulla ricostruzione in Italia dopo la seconda guerra mondiale?
Caratterizzano la stesura dei testi del volume, oltre al loro logico concatenamento, chiarezza, linearità espositiva, analitica documentazione di dati e di posizioni assunte dai protagonisti dei primissimi anni della ricostruzione di Milano, fattori tutti che inducono a recepirlo soprattutto come uno 'strumento per agire', vale a dire per guardare e interpretare la realtà fisica dell'ambiente nel quale viviamo a partire da un momento di sua esposta debolezza (una città drammaticamente devastata da diffusi bombardamenti), e assumere quindi mens e operatività nell'oggi e nel futuro che ne hanno consapevolezza. Mi pare questo il suo contributo più rilevante, più che la qualità filologica, pur notevole, di registrazione e valutazione di una documentazione finora non nota e molto importante per la comprensione di un momento storico di cui ancora, nonostante i settant'anni di distanza, avvertiamo l'importanza. Il legame tra limpidezza di pensiero e filologia di ricostruzione storica non è infatti molto comune negli scritti su temi così specialistici all'apparenza e insieme così connessi a quel bene comune che è la nostra città, il suo tessuto edilizio e i suoi episodi monumentali, le sue componenti di verde, percorsi, piazze, la sua attualità ricca di storia.
Il fortunato ritrovamento del blocco di più di 3000 schede compilate per ogni isolato con un'analiticità e una precisione di lettura dello stato di fatto sorprendente, vale a dire della quasi totalità del Censimento urbanistico 1946 ha sollevato in Pertot e Ramella interrogativi che strutturano il volume a partire dalla loro formazione scientifica. Nella mia percezione, questi interrogativi sono sostanzialmente due: quale peso effettivo ebbe questo Censimento sul PRG di Milano, approvato nel 1948, e in che termini esso fu, per chi lo utilizzò, termine di riferimento o specchio della realtà fisica e sociale sulla quale agire progettualmente? Con quale grado di conoscenza e consapevolezza dei problemi di tutela operarono i professionisti coinvolti (davvero molti tra i quali tutti i protagonisti di maggior rilievo di Milano), cioè con quale "concezione della storia e delle modalità con cui questa si rende conoscibile per mezzo delle testimonianze materiali"?
Il volume mi appare strutturato per rispondere a queste due domande in modo da far emergere l'interessante contrasto, di allora, tra la necessità di una ricostruzione non rimandabile e implicante ideazione e programmazione capaci di costituire basi il più possibile ottimali per il futuro prossimo da una parte e, dall'altra una mentalità incapace di misurarsi con le peculiari qualità del patrimonio urbano nella sua globalità, mentalità che accomunava tutti i professionisti e gli amministratori, dai più tradizionali e tradizionalisti ai moderni. Quattro saggi del volume - quello di Ramella, che legge con acribia il Censimento; la testimonianza di Alessandro Tutino, a quel tempo ancora studente, compilatore, ultimo ancora tra noi, con il giovane architetto Franco Albini delle schede dello stesso per una zona della città; i due scritti di Pertot - Lo sguardo sulla città e Censimento/Giacimento - mi sembrano il perno informativo e critico di tutta la proposta, che si avvale da una parte del chiaro e pacato contributo di Renzo Riboldazzi sulla cultura urbanistica che portò alla definizione del PRG Venanzi del 1948, dall'altra della presentazione, in rielaborazione digitale a cura di Ludovica Barassi, di 121 tavole a scala 1:5000 tratte dalle schede del Censimento, disponibili dunque oggi ad una lettura, che può risultare molto proficua, dello stato di fatto di allora.
Questo Censimento, "documento eccezionale per quanto venato di elementi soggettivi", venne elaborato con serietà in tre mesi circa, anche se probabilmente più come faticosa incombenza che come occasione di maturazione personale, da gran parte dei giovani architetti milanesi, molti dei quali oggi tra i più noti, scrive Ramella. Fu allora colossale operazione e oggi giacimento culturale dal quale si potranno estrarre censimenti ulteriori, in quanto "restituzione istantanea della anatomia e della fisiologia della Milano del 1946" scrive Pertot, mentre per Tutino essa fu "pazzesca" profusione di positiva energia sotto il segno della libertà ritrovata dopo vent'anni di fascismo. Rimando ovviamente ai saggi citati per una conoscenza precisa delle schede e del loro utilizzo nella compilazione del PRG del 1948. Ramella e Pertot identificano, da due punti di vista diversi ma convergenti, le ragioni del fallimento del PRG Venanzi, nonostante le potenzialità offerte dal Censimento. Per la prima, amministratori e progettisti di allora, privi di una maturità culturale in grado di considerare il costruito esistente risorsa imprescindibile, sancirono di fatto l'impotenza dell'urbanistica moderna milanese a delineare scelte pubbliche ben definite, come presto evidenziò Piero Bottoni. Per il secondo falliscono sia il PRG che gli organi di tutela. A Pertot, infatti, "pare che un'intera generazione cittadina (con poche eccezioni), posta di fronte alla novità dei problemi e a tematiche di inusitata dimensione e urgenza, si sia trovata a misurarsi con la propria inadeguatezza culturale e con le carenze degli strumenti, di più o meno recente fattura, che aveva a disposizione e che si costruì. E che ne sia uscita sconfitta".
Ovvio è, mi sembra, chiedersi se il giudizio così duro e lucido dei curatori del volume valga sostanzialmente come segnalazione realistica e insieme 'pessimistica' di un'occasione perduta da tutti, politici, amministratori e progettisti, sia che fossero protagonisti di opzioni tradizionali oppure, all'opposto, moderne. Altrettanto spontanea è la domanda se la lettura da loro proposta contenga i termini per l'attivazione di una revisione storica, se anzi di fatto già non lo sia. La loro indagine contiene, almeno per me, uno stimolo ancora più importante. Certamente offrono termini molto concreti di un dibattito di piena attualità, nella profonda crisi dell'urbanistica e nella non minore sofferenza sul fronte della tutela. Impongono un metodo di severa aderenza ai dati fisici di fatto nella loro globalità, dalle componenti geomorfologiche a quelle estetiche, anche a fronte di attuali trasformazioni di equilibri a scala mondiale, che stanno rendendo instabili modi e significati della vita collettiva e dei luoghi della sua stabilità. Possono incidere sui problemi aperti dalla ricerca, altrimenti destinata ad essere riduttivamente solo tecnologica, di architetture per la sostenibilità, di quella ecologica e persino della 'rigenerazione' urbana. Spingono a riflettere sui termini del rapporto, con la materiale realtà del costruito e della vita sociale che in esso si svolge, che gli strumenti disciplinari a nostra disposizione oggi consentono, o che noi consentiamo loro di attivare, in ragione di mentalità e cultura da noi coltivate. Intendo dire che l'obiettivo di un'indagine storico critica di questo tipo non può essere ridotta solo a premessa utile alla revisione della storia scritta finora, che può anche accadere e che è anzi auspicabile che avvenga in una più concreta e documentata adesione ai fatti materiali e alle loro ragioni. Essa stimola oggi, se ascoltata in modo adeguato e problematizzata, anche, anzi soprattutto, uno scatto di 'coscienza storica', in amministratori, politici, professionisti, docenti e allievi del Politecnico e delle altre università milanesi, dal momento che, per usare una formula di Gadamer che mi è cara, la coscienza storica non è, non può essere oggi "un progetto libero. È indispensabile che la coscienza storica si renda conto dei propri secolari pregiudizi e delle proprie attuali anticipazioni" (cfr. Il problema della coscienza storica).
Sapremo guardare al costruito come risorsa? Sapremo trovare, entro il contesto di riflessioni puntualmente verificate sulla realtà globale dell'architettura materiale che ereditiamo, un percorso di coesistenza, tra tutela, modifica e innovazione, che renda giustizia alle esigenze sociali nelle loro caratterizzazioni politiche plurime e al bene comune del contesto abitato? Sapremo far maturare una coscienza storica che non 'progetta in libertà' i tratti del passato cui apparteniamo, ma li riconosce e vi si attiene, accogliendo volentieri vincoli e freni capaci di bloccare interessi individuali conflittuali il patrimonio costruito di cui siamo o dovremmo essere custodi?
Maria Antonietta Crippa
N.d.C. - Maria Antonietta Crippa, architetto, già professore ordinario di Storia dell'architettura al Politecnico di Milano dove tuttora insegna, è attiva nel campo della conservazione e del restauro di edifici antichi e moderni, dirige la collana Fonti e saggi edita da Jaca Book, l'Istituto per la Storia dell'Arte Lombarda e la "Rivista dell'Istituto per la storia dell'Arte lombarda".
Tra i suoi libri: Carlo Scarpa. Il pensiero, il disegno, i progetti (Jaca book, 1984); Storia dell'architettura. Il mondo delle costruzioni e le sue immagini (Jaca book, 1992); Storie e storiografia dell'architettura dell'Ottocento (Jaca book, 1994); Luigi Caccia Dominioni. Flussi, spazi e architettura (Testo & immagine, 1996); Cremona. il Museo civico Ala Ponzone in Palazzo Affaitati. Il contributo museografico di Antonio Piva Milano (Electa, 2001); Antoni Gaudí, 1852-1926. De la nature à l'architecture (Taschen, 2003; ed. it. 2004, 2007, 2015); con C. Capponi, (a cura di), Gio Ponti e l'architettura sacra. Finestre aperte sulla natura, sul mistero, su Dio (Pizzi, 2005); con D. Cattaneo (a cura di), È Dio il vero tema. Cesare Cattaneo e il sacro (Archivio Cattaneo, 2011); con C. Ajroldi, G. Doti, L. Guardamagna, C. Lenza, M.L. Neri (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento (Mondadori Electa, 2013); con Francçoise Caussé, Le Corbusier, Ronchamp. La Cappella di Notre-Dame du Haut (Jaca book, 2014); Avvicinamento alla storia dell'architettura. Racconto, costruzioni, immagini (Jaca Book, 2016).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
RR © RIPRODUZIONE RISERVATA 20 OTTOBRE 2017 |
CITTÀ BENE COMUNE
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G. Fera, Integrazione e welfare obiettivi di progetto, commento a: L. Caravaggi, C. Imbroglini, Paesaggi socialmente utili (Quodlibet, 2016)
C. Bianchetti, La ricezione è un gioco di specchi, commento a: C. Renzoni e M. C. Tosi (a cura di) Bernardo Secchi. Libri e piani (Officina, 2017)
P. Panza, L'eredità ignorata di Vittorio Ugo, replica al commento di G. Ottolini a: A. Belvedere, Quando costruiamo case... (Officina, 2015)
A. Calafati, Neo.Liberali tra società e comunità, replica al commento di M.Ponti a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)
M. Ponti, Non-marxista su un dialogo tra marxisti, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)
G. Semi, Tante case non fanno una città, commento a: E. Garda, M.Magosio, C. Mele, C. Ostorero, Valigie di cartone e case di cemento (Celid, 2015)
M. Aprile, Paesaggio: dal vincolo alla cura condivisa, commento a: G. Ferrara, L'architettura del paesaggio italiano (Marsilio, 2017)
S. Tedesco, La messa in forma dell'immaginario, commento a: A.Torricelli, Palermo interpretata (Lettera Ventidue, 2016)
G. Ottolini, Vittorio Ugo e il discorso dell'architettura, commento a: A. Belvedere, Quando costruiamo case, parliamo, scriviamo. Vittorio Ugo architetto (Officina Edizioni, 2015)
F. Ventura, Antifragilità (e pianificazione) in discussione, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)
G. Imbesi, Viaggio interno (e intorno) all'urbanistica, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi 2016)
D. Demetrio, Una letteratura per la cura del mondo, commento a: S. Iovino, Ecologia letteraria (Ed. Ambiente, 2017)
M. Salvati, Il mistero della bellezza delle città, commento: a M. Romano, Le belle città (Utet, 2016)
P. C. Palermo, Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)
F. Indovina, Pianificazione "antifragile": problema aperto, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)
F. Gastaldi, Urbanistica per distretti in crisi, commento a: A. Lanzani, C. Merlini, F. Zanfi (a cura di), Riciclare distretti industriali (Aracne, 2016)
G. Pasqui, Come parlare di urbanistica oggi, commento a: B. Bonfantini, Dentro l'urbanistica (Franco Angeli, 2017)
G. Nebbia, Per un'economia circolare (e sovversiva?), commento a: E. Bompan, I. N. Brambilla, Che cosa è l'economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016)
E. Scandurra, La strada che parla, commento a: L. Decandia, L. Lutzoni, La strada che parla (FrancoAngeli, 2016)
V. De Lucia, Crisi dell'urbanistica, crisi di civiltà, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)
P. Barbieri, La forma della città, tra urbs e civitas, commento a: A. Clementi, Forme imminenti (LISt, 2016)
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S. Tagliagambe, Senso del limite e indisciplina creativa, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)
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