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LA CITTÀ È PROGRESSISTA, IL SUBURBIO NO
Ancora un commento al libro di Cuda, Di Simine e Di Stefano
Fabrizio Bottini
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A volte scorrendo certe ricostruzioni dell'azione sottesa alla vicenda decisionale autostradale così come proposta da Anatomia di una grande opera. La vera storia della Brebemi - di Roberto Cuda, Damiano Di Simine e Andrea Di Stefano (Edizioni Ambiente, 2015) - non possono non tornare in mente analoghi, in realtà quasi identici, passaggi di un altro, antico e classicissimo dell'urbanistica italiana, per quanto assai poco mainstream. Si tratta del libriccino in cui Giovanni Astengo mezzo secolo fa raccontava se stesso nei panni di un Urbanista sotto accusa a Gubbio (Arti Grafiche Rosada, 1968) riflettendo amaramente sui perversi incroci fra una impossibile neutralità disciplinare e la pur rivendicata sovrapposizione tra urbanistica e politica che l'avevano trascinato, suo malgrado, in un pasticciato scontro di interessi locali. Lo studioso sistematico e accademico, portatore di un'idea di città e territorio "normalizzati" - grazie a una pilotata convergenza degli interessi particolari, all'uso sapiente dell'analisi scientifica e della pur non rinnegata discrezionalità politica - se da un lato metteva in piazza come sfogo personale tutti i sordidi indicibili intrecci di un'idea di sviluppo a favore di pochi, dall'altro ribadiva senza alcun dubbio il potenziale ricompositivo della propria appartenenza disciplinare.
La questione oggi, di fronte all'altrettanto puntigliosa e impietosa ricostruzione del saggio centrale sulla Bre.Be.Mi. firmato da Roberto Cuda - che in realtà è il "vero" autore di questo libro, essendo gli altri due contributi il primo una sorta di ampia introduzione-legittimazione e il secondo una breve nota aggiuntiva su temi ambientali appena sfiorati dall'analisi finanziaria - si ripropone in termini del tutto analoghi, anche se forse meno coinvolgenti: esiste un potenziale ricompositivo in questo genere di prospettiva, vuoi per la lettura critica, vuoi per la "sostenibilità" o meno della grande opera di trasformazione territoriale? Oltre le forzature, le eventuali distorsioni dei meccanismi decisionali e tecnico-amministrativi, ciò che forse più salta agli occhi è l'apparente assenza del territorio da questo manifestarsi della "visione politica", di una idea spuntata nel corso di una cena elegante, discussa a quattr'occhi in qualche salottino riservato, magari approfondita in uno scambio di battute e foglietti in margine a qualche convegno. Ne emergerebbe - e da qui quel parallelismo col memorabile sfogo pubblico di Giovanni Astengo - proprio quel trionfo dell'interesse particolare a cui tutto a tutti si devono piegare, costi quel che costi, anche e soprattutto alle casse pubbliche.
Non sta certo all'incompetenza di chi scrive, stabilire e verificare la correttezza scientifica dell'analisi di questa precisa e impietosa Anatomia di una grande opera. Del resto ci ha già pensato Marco Ponti su queste stesse pagine, da un lato a validarne criticamente il metodo ma dall'altro a metterne in dubbio la comprensività: è vero, innegabile - osserva Ponti - che il doppione autostradale padano tra l'area metropolitana milanese e quella bresciana è stato realizzato "con costi economici assai superiori a quelli previsti inizialmente" e pur tuttavia - afferma - "gli aspetti finanziari, seppur importanti, non sono certo gli unici da prendere in considerazione per valutare nel suo insieme l'economicità di un'opera utile per la collettività". Ecco, pur senza di nuovo prendere parte alcuna nella indiretta discussione sui costi-benefici tra Ponti e Cuda, pare di poter sposare la tesi di metodo del primo, quando sottolinea che criticare i mezzi può anche andare benissimo, ma forse dare anche un'occhiata ai fini aiuterebbe a chiarire di che cosa si sta parlando. Cosa vuol dire, insomma, "benefici" per la collettività, secondo l'interpretazione tutta politica e discrezionale dei decisori che tante forzature hanno imposto alla realizzazione, comunque, di quest'opera apparentemente "inutile"? A cosa e a chi serve, quel nastro d'asfalto al momento assai poco frequentato, tra un punto imprecisato nei campi a sud di Brescia e un altro alla periferia di Melzo, relativamente lontano da downtown Milano?
Per provare a rispondere, partiamo dalla definizione che utilizza lo stesso Roberto Cuda nel titolo di un paragrafo: "Cricca autostradale", a definire appunto il conglomerato di interessi, più o meno legittimi e leciti, che spingono per la realizzazione ad ogni costo dell'opera. Forse a insaputa dello stesso Autore, si tratta della traduzione letterale del termine Road Gang, usato storicamente dai critici nordamericani per raccogliere l'incredibile coacervo di attori piccoli e grandi che, dal periodo tra le due guerre mondiali in poi, trasformeranno l'auspicio antiurbano di Henry Ford - rilanciato da Frank Lloyd Wright nei suoi schizzi di Broadacre - in un vero e proprio inarrestabile modello di sviluppo, economico e socio-territoriale. Perché, in principio, ci sono soltanto la nuova tecnologia dell'automobile - decantata da Daniel H. Burnham già alla Town Planning Conference londinese del 1910, in quanto molto meno inquinante dei cavalli - e una generica idea di decentramento pianificato a cavallo fra le culture della città giardino e quelle della convenienza industriale. Ma poi, all'alba dell'ultimo conflitto mondiale, arriva la profezia in grado di avverarsi: Futurama, il film di animazione proiettato alla Fiera Mondiale di New York nel 1939 nel padiglione omonimo allestito dalla General Motors. Pellicola breve ma intensa, dove la sceneggiatura e le immagini efficacemente montate dal designer Norman Bel Geddes, di fatto anticipano quanto accadrà a partire dal dopoguerra quando ovunque nel mondo agirà concretamente la Road Gang, cricca autostradale di gigantesche dimensioni e respiro che, già allora, pregustava quel mondo di nuova frontiera mobile dell'espansione urbana e dei consumi di massa. Dove tutto si tiene ruotando attorno all'auto privata e alla sua infrastruttura dedicata a molte corsie, inventata negli anni '20 a Milano ma che solo negli Usa riuscirà a transustanziarsi da pista veloce in stile futurista a vero e proprio canale per lo sviluppo economico, sociale, territoriale.
Eppure manca ancora qualcosa. Manca l'elemento di crisi del sistema, costituito dalla sua sostanziale artificiosità, che viene intravisto quasi subito, all'alba del suo pieno dispiegarsi, da parecchi critici. Per esempio, dal romanziere Richard Yates quando nel suo Revolutionary Road, ambientato negli anni '50, individua proprio nel passaggio dall'ambiente urbano, in cui si è formata la coppia dei suoi protagonisti, a quello suburbano, dove si trasferisce per seguire la carriera di lui relegando lei al classico ruolo di madre casalinga, un elemento di rottura e tragica normalizzazione. O, ancora, quando il sociologo William H. Whyte, nelle ricerche sul campo che confluiranno nel suo L'uomo dell'organizzazione (1956, edizione italiana curata dal giovane olivettiano Luciano Gallino), trova nel suburbio il nucleo di un nuovo autoritarismo aziendale che riduce anche i quadri superiori e le loro famiglie a pedine di un gioco molto più grande di loro e incontrollabile. Insomma quel mondo di villette modello ranch a mutuo agevolato, nuovi svincoli autostradali, centri commerciali e barbecue coi colleghi del sabato sera, pare più il sogno di chi lucra sul consumismo coatto che la versione automobilistica e di massa dei sobborghi giardino di Howard e Unwin seconda maniera. Soprattutto, un mondo molto orientato in senso conservatore, quando non decisamente di destra, coi suoi tempi, modi, ruoli anche di genere fissati per l'eternità. Non è certo un caso che, là dove il modello suburbano automobilistico è nato - e si è nei decenni imposto come "casa" e senso della vita per generazione dopo generazione di abitanti - esista una copiosa letteratura sociologica e politologica sul tema: "La città è tendenzialmente progressista, il suburbio conservatore", il tutto confermato da letture dei flussi elettorali, delle propensioni di mercato, dei comportamenti, reati, stili di vita.
Ma proviamo a ricongiungere questa apparentemente lunga divagazione al nostro tema di partenza, che era ed è la pertinace volontà, apparentemente contro ogni logica, dei promotori della Bre.Be.Mi. di portare a termine l'opera e di inserirla, insieme ad altre trasformazioni analoghe, in progetto o no - si pensi all'idea del Grande Raccordo Anulare Lombardo attorno a Milano -, dentro una grande rete che di fatto funziona da sistema sanguigno, ad alimentare il cosiddetto "sviluppo del territorio", ovvero l'urbanizzazione dispersa delle aree di pianura e pedemontane. Basta dare un'occhiata a quanto materialmente cresciuto nel corridoio insediativo delineato dalla nuova autostrada per cogliere questa idea di infrastruttura: un alimentatore che spinge la riproduzione seriale di sistemi socioeconomici locali, quasi spontaneamente orientati in senso conservatore. Una specie di dorsale asfaltata a sostegno di collegi elettorali delle forze politico-sociali che si ritengono egemoni, ed egemoni in eterno, nell'area padana. Si è così disposti a qualunque "sacrificio", ivi compreso quello della faccia e del buon senso, per un obiettivo del genere e anche alle infinite distorsioni e forzature tanto ben documentate e descritte nei dettagli dalla Anatomia di una grande opera. Che però non pare cogliere appieno, nelle proprie tesi di fondo, quel discrimine fondamentale tra mezzi e fini. Fini che non sono certo la mobilità fra il confine col Veneto e il principale nodo urbano della macroregione e, forse, neppure l'enorme valore aggiunto immobiliare indotto dall'autostrada e dalle sue disseminazioni suburbane. Ma che invece iniziano ad apparire chiari, politicamente parlando, nella clonazione della famiglia ideale, dentro la sua non-città ideale. Che voterà sempre dalla parte giusta.
Certo, tutto ciò pare un po' fantasioso, da fantascienza paranoica, ma se ci pensiamo un istante appare invece perfettamente logico. Anzi ci accorgiamo che sta già accadendo.
Fabrizio Bottini
N.d.C. - Fabrizio Bottini, urbanista e ricercatore indipendente, ha insegnato Urbanistica al Politecnico di Milano. È stato redattore capo di Eddyburg e ha fondato e diretto Mall - sito web in cui sono raccolti articoli, testi e documenti internazionali (spesso tradotti appositamente in italiano) sui temi della città, dell'urbanistica e degli spazi del consumo - e La Città Conquistatrice, blog di dibattito sui temi della città, del territorio, dell'ambiente.
Tra i suoi libri: (a cura di) Monza. Piani 1913-1997 (Libreria Clup, 2003); Sovracomunalità 1925-1970. Elementi del dibattito sulla pianificazione territoriale in Italia (FrancoAngeli, 2003); I nuovi territori del commercio. Società locale, grande distribuzione, urbanistica (Alinea, 2005); (a cura di) Spazio pubblico. Declino, difesa, riconquista (Roma: Ediesse 2010); La città conquistatrice. Un secolo di idee per l'urbanizzazione: antologia (Corte del Fontego, 2012).
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Marco Ponti, Brebemi: soldi pubblici (forse) non dovuti, ma..., 22 febbraio 2017.
N.b. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 26 OTTOBRE 2017 |
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