Andrea Villani  
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PIANIFICAZIONE ANTIFRAGILE, UNA TEORIA FRAGILE


Ancora un commento al libro di Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini



Andrea Villani


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Oggetto fondamentale dell'urbanistica era costituito un tempo dallo studio e dalla proposta sulle modalità di organizzazione fisica della città nel senso più ampio. Partendo da una lettura e analisi critica di ciò che la città è. Facendo esplicito riferimento alle città concrete e reali. Osservando ciò che in esse non funziona bene, e avanzando proposte sul modo di procedere per risolvere quei problemi. Per molti aspetti le cose non sono andate così. Perchè di fronte a uno sviluppo disordinato, caotico, casuale, e anche con esiti pratici - per non parlare di estetici - negativi, si è mirato, da parte di numerosi teorici e addetti ai lavori, a coinvolgere nella riflessione critica e progettuale temi e attori provenienti da ambiti culturali certamente suggestivi, ma ampiamente ininfluenti per la soluzione dei problemi concreti della città e del territorio. E facciamo qui riferimento esplicito soprattutto all'ambito filosofico, a strutturalisti, post-strutturalisti, de-costruttivisti, francesi, i sempre citati Lacan, Foucault, Lyotard, Deleuze, Guattari, Derrida; a filosofi americani dei più vari orientamenti: da John Rawls a Robert Nozick, da James Buchanan a Michael Walzer, da Ronald Dworkin a Martha Nussbaum, fino all'indiano Amartya Sen.

Ora abbiamo sotto gli occhi questo libro di Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini - Verso una pianificazione antifragile. Come pensare al futuro senza prevederlo (FrancoAngeli, 2016) - che già dal titolo pone problemi. Quand'è infatti che qualsiasi cosa: oggetto, struttura, regola, essere umano è fragile? Un'ovvia risposta può essere: quando non resiste alle scosse. Questo implica che questo oggetto - regola, struttura, essere umano - sia fortissimo: vale a dire capace di sfidare qualsiasi evento. Oppure, al contrario, quando sia elastica, e si pieghi alla pressione, e se del caso - una volta che questa sia superata - ritorni più o meno nella situazione precedente. Vale a dire - nel linguaggio oggi di moda, sia 'resiliente'. In proposito mi viene alla mente una poesia di La Fontaine, studiata a memoria da fanciullo: Le Chêne et le Roseau. La sfida tra la quercia e il canneto, e come la quercia si vantasse della sua forza; ma di fronte all'uragano era il canneto a resistere; perchè le canne si piegavano senza andare a pezzi sotto la furia della tempesta, mentre la quercia alla fine giaceva al suolo spezzata. Di fatto, spezzarsi piuttosto che adattarsi alle mutevoli pressioni esterne, è talvolta considerato come titolo di merito; e non per nulla, un tempo, ne "La Stampa" di Torino, sotto il titolo del giornale, stava scritto: frangar, non flectar. Mi spezzerò, ma non mi piegherò. E c'è anche altro da enfatizzare, da chi ritiene futile impresa l'urban planning per determinare l'avvenire della città, in uno o molti sensi. Perché se non si può prevedere il futuro, che senso avrebbe un'azione per determinarlo?

 

Sul prevedere, predeterminare il futuro

Io credo che - in qualche modo seguendo sentimento e ragione - ciascuno di noi, con le sue scelte, predetermini il suo futuro. Non in tutto ovviamente; perché nella nostra vita giocano in modo fortissimo serendipity: vale a dire fortuna, casualità. Cioè, in sostanza, tutto quanto non dipende da noi; quanto non è frutto di nostre decisioni. Ma noi - di fronte a brezze leggere o a uragani, a situazioni che appaiano positive o negative - se non siamo vincolati a un'unica soluzione possiamo rispondere in modi diversi. E questo implica l'elaborazione di obiettivi generali; e poi l'individuazione di obiettivi strumentali, parziali, intermedi possibilmente nella direzione prefissata; e, infine, l'individuazione dei mezzi necessari al cammino da intraprendere. Lasciando da parte la questione del multiple self - che, senza dubbio, complica modo, metodo, processo delle nostre personali decisioni - se si parla di decisioni sulla città, sul suo futuro, su come crearla, trasformarla svilupparla - indubbiamente, necessariamente, ci si trova a sviluppare un processo di decisione politica. Vale a dire elaborare un modo per decidere la sorte di molte persone, in cui queste sono coinvolte nel prima e nel poi; cioè in quello che si deciderà di fare, e poi sulle conseguenze di questa decisione. E questo vale tanto nel caso che sia un autocrate o un'oligarchia a stabilire obiettivi e mezzi, quanto nel caso ciò avvenga attraverso un sistema liberale e democratico, vale a dire in cui siano molti a decidere le questioni che tocchino molti.

 

Devo parlare di questo libro

Devo parlare di questo libro; devo scrivere di questo libro che predica una pianificazione antifragile e usa questa parola perchè gli autori - Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini - non hanno ritenuto di trovarne una più appropriata per dire il contrario di fragile. Già da qui possiamo iniziare la nostra discussione. Davvero non ho mai usato né sentito usare una simile parola per indicare quel concetto. I bicchieri di cristallo sono certamente fragili; persone che sopportano male gli urti anche piccoli della vita, sono ritenute e definite fragili. Le persone che invece - non dico per merito loro, ma di fatto - sanno affrontare con decisione e coraggio ogni avversità, sono definite solide, dal carattere forte; e gli oggetti che non si rompono si definiscono resistenti, robusti, infrangibili, immodificabili, fermi. Ecco: "fermo". E mi viene alla mente un verso di Dante:

"sta come torre ferma che non crolla / già mai la cima per soffiar de' venti".

Per questo, personalmente, non ritengo sia il caso di usare il termine antifragile, per indicare una forma di town and country planning; ma, piuttosto, l'espressione "pianificazione rigida" per indicare una proposta di piano fisico, presumibilmente stabilito da una autorità forte con obiettivi predefiniti e vincolanti da raggiungere nel breve - al massimo nel medio - periodo; e l'espressione "moving planning", o "piano-processo", per indicare una forma di pianificazione che stabilisca linee di indirizzo e metodi d'azione per la trasformazione e la crescita della città tenendo conto di ciò che man mano nel tempo rimane inalterato, e di ciò che invece muta rispetto al momento in cui le scelte di partenza sono state compiute.

 

Parlare di piano

Io - come molti amici che non ci sono più - mi sono interessato del piano, della 'politica di piano', con impegno e passione, più di mezzo secolo fa, dall'inizio degli anni Sessanta Non avevamo fiducia, allora, nell'economia di mercato. Vedevamo i fallimenti del mercato; eravamo nutriti dell'idea che con una razionale, intelligente, lungimirante concezione si potessero governare investimenti e consumi per il bene comune. E si intendeva il bene di tutti i cittadini, di tutte le persone che vivevano nel nostro paese; ma più in generale nella società occidentale. E nel piccolo, nel particolare dei nostri comuni, per la creazione dei necessari servizi collettivi, a iniziare da quelli che più toccano da vicino ogni persona, ogni famiglia, e di cui noi, noi per primi, dall'infanzia, provavamo la carenza.

Poi, appena un poco più tardi - e mi riferisco non al pensiero e all'azione di studiosi e politici in generale, ma al mio impegno personale -, dall'inizio del 1964 a oggi, alla città, intesa come insieme di cittadini e funzioni, e alla sua forma fisica, al modo in cui cresce, si sviluppa, si distende sul territorio. Avendo in mente l'ambito territoriale complessivo di riferimento e dovendo specificare dove realizzare le case, le fabbriche, i negozi, le scuole, le chiese, le palestre, i giardini. Funzioni, queste, tutte importanti e necessarie; tutte da realizzare subito se ci sono le risorse; o man mano che le risorse divengano disponibili, facendo con un certo ordine l'una cosa piuttosto che l'altra, a seconda di quanto stabilito con una corretta decisione collettiva. Studiando come queste strutture e infrastrutture si sarebbero dovute fisicamente realizzare; con quale connessione le une con le altre, fino al livello micro-urbanistico; fino - se del caso, se ammissibile e possibile - al livello di metaprogetto architettonico (il che significa anche tenendo conto del contesto, nella realizzazione di strutture e infrastrutture).

Su questi temi abbiamo lavorato più di mezzo secolo; abbiamo letto e studiato tesi di maestri e di movimenti famosi; abbiamo assistito a scontri furibondi nell'arena intellettuale e politica quando non era il tempo della tolleranza, né meno che mai il tempo del relativismo culturale. In un tempo in cui si pensava alla città, da realizzare ovviamente per il bene di tutti, da una parte, con modelli predefiniti - città dell'utopia; l'utopia come valore, da porre non solo come obiettivo finale ma come guida per l'azione in un contesto di piano di grandi infrastrutture e strutture -; dall'altra, il piano-processo, il moving-planning.

 

Il nuovo verbo: la mixité

Abbiamo visto nell'urbanistica una miriade di movimenti culturali; e oggi nel libro di Blečić e Cecchini citare ancora, come un modello, le tesi di Jane Jacobs e - naturalmente accantonate - le posizioni contrapposte dei razionalisti; le tesi dei maestri dei CIAM, della Carta d'Atene, del Movimento Moderno. Oggi, per il modo di essere della città, il verbo è la mixité. Di fatto, lo sviluppo economico e industriale - a iniziare da Milano e Torino e poi, più tardi nel Nord-Est - è avvenuto mescolando case e fabbriche nell'ambito urbano. E, nel cuore di non piccoli borghi, realizzandosi la commistione di case contadine con le loro stalle e i loro orti, con le residenze, con le attività artigianali, divenute poi industrie di varie dimensioni. Ora si dice superato il modello razionalista dello zoning; si dice finita la separazione netta delle funzioni sul territorio; ma di fatto - e anche come indirizzo - è certamente improponibile ubicare quel tanto di fabbriche che ancora vivono (o sopravvivono) in zone residenziali. Anzi, dove le residenze sono alto-borghesi, id est di alta qualità, non sono ammessi neppure negozi, se non, in qualche caso, di respiro e livello internazionale.

 

Che dire del 'town and country planning' del nostro tempo? Ma innanzitutto: di quale Paese? E, se fosse da noi, di quale parte del nostro Paese?

Mettiamo bene in chiaro: da qualche parte le regole da seguire, anche per le invenzioni igienico-tecnico-urbanistiche dell'Unione Europea, sono estremamente puntuali e vincolanti. Da qualche parte i controlli sull'urbanizzazione sono continui, intensi, e persino asfissianti. In altre parti, di fatto, anche se non ufficialmente proclamato, si è liberi di costruire come e dove si vuole: come sostenuto da Marco Romano in un suo libro di qualche anno fa - e come sostiene ancor oggi - citando persino un discorso di San Pietro riportato negli Atti degli Apostoli. Da noi, in Lombardia, tutti i Comuni hanno un piano per governare il territorio. I Comuni, i loro amministratori, elaborano e approvano un piano strategico; un piano delle regole; un piano dei servizi. La realtà è un mix di molte storie; e sono leggibili e visibili le varie generazioni di piano; e oggi non c'è più - mi pare - un'idea ex-ante, se non per ambiti decisamente vincolati per funzioni di scala sovracomunale, decise in generale da livelli superiori di governo, di tutto l'assetto del comune. Ogni Comune ha in mente di doversi sviluppare, perché attraverso gli oneri di urbanizzazione si devono rastrellare le risorse per la gestione ordinaria ed eccezionale; e poi si deve il più possibile favorire investimenti per creare posti di lavoro e per realizzare città sempre più competitive, capaci di mostrare il loro merito quanto meno alla scala regionale; se non addirittura alla scala nazionale e internazionale. Tutto questo per dire che il governo del territorio si può fare - se e dove si può fare - e i suoi obiettivi sono frutto del sentire prevalente alla scala locale; anche se magari in qualche città sarà seguito - per azione di un gruppo dominante in termini politici e culturali - qualche specifico orientamento tra i molti che si confrontano nell'Accademia e nel dibattito pubblico. Ma certo - va enfatizzato - nelle proposte avanzate alla pubblica amministrazione da privati promotori - ad esempio per lo sviluppo di un quartiere - di fatto si realizza una moderata mixité. E va pur enfatizzato che a livello di progetto delle singole strutture sono oggi praticati cento, mille linguaggi differenti e anche le più varie fantasie per ogni funzione, per il loro concertato insieme (si pensi come esempio evidente al quartiere Porta Nuova o a City Life a Milano).

Quanto detto vale ovviamente per i nuovi sviluppi urbani; al limite, per le nuove città che si devono pur creare se si crescerà sulla terra di qualche miliardo di persone, e da noi di diecine o centinaia di milioni di abitanti. E, certo, in questi sviluppi si potranno realizzare ampi marciapiedi e piste ciclabili, ampie piazze, ampie zone pedonali, kindergarten a dismisura e parchi e giardini, nel modo che l'architetto urbanista creatore convincendo l'ambizioso promotore immobiliare riterrà più adatto, brillante e gradevole per i futuri cittadini. Tutto questo è accaduto per Milano Due, Milano Tre, Milano San Felice; per Barbican a Londra, il precinct di Coventry, di Harlow, di Stevenage, e il centro di Milton Keynes e di Welwyn Garden City; o i nuovi, ordinatissimi quartieri di Cambridge sono lì a mostrarlo. Questi organizzati sviluppi fisici di città potranno bastare, a certe condizioni, a dare possibilità di una civile ordinata convivenza. Non basteranno invece certamente a realizzare quella bellissima chienlit, quel disordine creativo sempre al fondo dei sogni di cultori della città eredi del Sessantotto: una città piena di una perenne vitalità giovanile. Ma quid nella città esistente, in continua trasformazione? A quanto pare non durano di vita perenne nemmeno i playgrounds ricavati alla van Eyck; né sarà possibile ricavare ampi marciapiedi, ampie aree pedonali senza l'impresa improbabile di distruggere la parte storica della città per attuare un innovativo progetto urbano secondo un modello auspicato con enfasi come esempio di grande, positiva, significativa innovazione da Blečić e Cecchini nel loro libro.

 

Il Capability Approach per l'Urban Planning?

Questo libro si esprime con diversi linguaggi, come l'arte del nostro tempo. Gli autori citano - anche testualmente - Epicuro, Proclo, Michelangelo, Irving Stone, Bacone, Voltaire, Baudelaire, Carducci, Brecht, Simenon, Edith Piaf. Tutto questo, per uno come me che ama la poesia - non in astratto, ma concreti poeti - oltre che le arti visive, dà sempre emozione E quelle parti del libro - come in cui c'è la descrizione dell'idea e delle prassi delle smart cities - sono gradevoli alla lettura e raccontano anche cose che non conoscevo o a cui non avevo pensato. E anche solo per questo - oltre che per una robusta bibliografia - il libro meriterebbe di essere acquistato. Poi però gli autori si imbarcano anche in una impresa che - per quanto enfatizzano - dovrebbe dare ragione formale e sostanziale alle loro indicazioni sui modi di procedere nel creare, rigenerare, costruire nella città. E in modo particolare per i sottoprivilegiati; perchè i well-to-do - la classe dominante - riescono sempre e comunque a trovare ciò che pare più opportuno. L'impresa - che mi appare poco convincente - è quella di voler utilizzare per giungere a definire, stimolare, proporre una città che si organizzi (attraverso la pianificazione antifragile) in modo tale da realizzare giustizia, equità - e quindi la casa per tutti, i servizi per tutti, con un assetto fisico adeguato - il capability approach di Amartya Sen rafforzato, in termini filosofici, da Martha Nussbaum. Il punto cruciale, il motivo per cui ritengo di fermarmi e discutere sull'ampio riferimento - posto nel libro come fondamentale - alle teorie di Sen, è innanzitutto che dal mio punto di vista la lettura che gli autori ci offrono della teoria di Sen mi sembra essere fatta al modo di un debito rituale, ovvero alla moda di questo nostro tempo. Oggi Amartya Sen; appena ieri, John Rawls.

Il capability approach è costruito sull'idea che esistano per ogni individuo delle capabilities e dei functionings. Queste due parole sono state lette e interpretate in molti modi, in generale decisamente positivi, come strumento concettuale - premessa ad azioni pratiche - per realizzare una nuova e migliore politica pubblica di sostegno sociale. Functionings - nella nostra lettura - sono tutte quelle cose, o attività, che gli esseri umani, i singoli esseri umani dovrebbero poter avere, di cui dovrebbero poter disporre, per una decente condizione umana. Allo stesso tempo potrebbero costituire obiettivi di vita, ma anche essere strumenti per il raggiungimento di progetti di vita più elevati. Che i functionings siano soltanto strumenti o anche obiettivi (o progetti) di vita, dipende ovviamente da cosa si mette nell'elenco che li include e descrive. Elenco che non è stabilito e non può essere stabilito in modo asseverativo da nessuno che accolga questa concezione di giustizia. Per quanto riguarda capability, questa letteralmente significa capacità, ovvero 'potere di fare determinate cose'. E questo, nella nostra lettura, significa potenzialità. Vale a dire la capacità di ogni singola persona; quello che una persona dovrebbe poter riuscire a fare se sviluppasse le sue doti di natura, ciò che il patrimonio genetico le ha dato.

Dagli scritti di Sen, come da quelli di Martha Nussbaum, emerge il significato profondo di questa proposta. Cioè quello di riuscire, in una politica volta alla giustizia sociale, a tenere presenti le singole persone, una per una, mettendosi nell'ottica di farle sviluppare, nel senso più generale, nella maggiore misura possibile. Con l'obiettivo di realizzare un simile sviluppo seguendo le libere scelte di ogni persona. La tesi di Sen è dunque che ogni società, ogni forma di governo mirante alla giustizia e al massimo bene collettivo - ed essenzialmente una società liberale e democratica - dovrebbe puntare non solo o tanto a dare a tutti i cittadini in quanto cittadini una certa quantità di beni e servizi in modo indistinto come se si fosse tutti uguali, ma a dare a ogni cittadino-persona l'aiuto, lo stimolo necessario a sviluppare tutte le sue potenziali capacità. E in questo modo - viene facile aggiungere - anche quella società, quale insieme di tutti i cittadini, di tutte le persone di cui è formata, avrebbe il suo massimo sviluppo.

Queste tesi hanno molti sostenitori e Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini sono tra questi. Di fatto, tra i sociologi studiosi del Welfare State e tra politici di non breve visione, l'idea che con una più valida concezione dello Stato del Benessere non si dovrebbe sostenere tutti al medesimo modo, ma in un modo tale da tener conto delle diverse specifiche doti personali, delle diverse storie personali, e quindi anche delle diverse esigenze. Si tratta dunque di un'idea per nulla nuova. Non nuova e in ampia misura senza traduzione concreta. E questo per non insignificanti ragioni. Si pensi al tema delle potenzialità. Chi decide attraverso una ricerca sulla singola persona quali sono le doti rilevanti da valutare, stimolare e, se del caso, esaltare? Chi pone, e con quali strumenti e azioni, gli obiettivi da raggiungere a livello personale per ogni singolo cittadino o persona? E come procedere se la lettura delle capacità e degli obiettivi di sviluppo che i cittadini - singoli o come gruppi - liberamente pongono (secondo l'assioma o progetto seniano) non corrisponde a quello di chi - in nome di un criterio di scelta collettiva - deve sostenere e finanziare? Quanto sostengo è che non sia affatto necessario passare attraverso l'approccio seniano per giungere a sostenere l'importanza per tutte le persone, per tutti i cittadini, di disporre di quanto stabilito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo promossa dalle Nazioni Unite. Specie con riferimento a ciò di cui si vorrebbe disporre nella città: vale a dire un'abitazione decente; un posto di lavoro e quindi un salario; e - non lontano da casa, nel proprio ambiente, e comunque in modo accessibile - i servizi collettivi del tipo presente nelle società occidentali.

Ma non è tutto. Dal mio punto di vista dovrebbe essere chiaro che non esiste una risposta semplice e univoca sul modo per tentare di realizzare nel complesso un simile obiettivo; né sulla forma, il luogo, il modo di realizzare in concreto tutte - sottolineo tutte - le funzioni urbane necessarie per una vita considerabile decente per tutti i cittadini, in conformità al nostro standard di vita. E certamente - questo è il punto - anche se dall'approccio seniano può derivare uno stimolo per talune persone di talune culture a operare per obiettivi specifici di giustizia sociale, aggiuntivi rispetto a quelli del Welfare State tradizionale (come in una prospettiva e applicazione volontaristica, di social design), non derivano invece indicazioni su possibili e opportune modalità di realizzare la pianificazione urbanistica nei diversi contesti.

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10 NOVEMBRE 2017

 

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

ideato e diretto da
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in redazione:
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2017: programma/present.

 

 

Gli autoritratti

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2016: online/pubblicazione
2017:

B. Petrella, I limiti della memoria tra critica e comportamenti, commento a: A. Belli, Memory cache (Clean, 2016)

P. Pileri, La finanza etica fa bene anche alle città, commento a: A. Baranes, U. Biggeri, A. Tracanzan, C. Vago, Non con i miei soldi! (Altreconomia, 2016)

A. L. Palazzo, La forma dei luoghi nell'età dell'incertezza, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2016)

D. Patassini, Lo spazio urbano tra creatività e conoscenza, commento a: A. Cusinato, A. Philippopoulos-Mihalopoulos (a cura di), Knowledge-creating Milieus in Europe (Springer-Verlag, 2016)

F. Bottini, La città è progressista, il suburbio no, commento a: R. Cuda, D. Di Simine, A. Di Stefano, Anatomia di una grande opera (Ed. Ambiente, 2015)

E. Scandurra, Dall'Emilia il colpo di grazia all'urbanistica, commento a: I. Agostini (a cura di), Consumo di luogo (Pendragon, Bologna)

M. A. Crippa, Uno scatto di "coscienza storica" per le città, commento a: G. Pertot, R. Ramella (a cura di), Milano 1946 (Silvana, 2016)

R. Gini, Progettare il paesaggio periurbano di Milano, recensione di V. Gregotti et al., Parco Agricolo Milano Sud (Maggioli, 2015)

G. Fera, Integrazione e welfare obiettivi di progetto, commento a: L. Caravaggi, C. Imbroglini, Paesaggi socialmente utili (Quodlibet, 2016)

C. Bianchetti, La ricezione è un gioco di specchi, commento a: C. Renzoni, M. C. Tosi (a cura di), Bernardo Secchi. Libri e piani (Officina, 2017)

P. Panza, L'eredità ignorata di Vittorio Ugo, replica al commento di G. Ottolini a: A. Belvedere, Quando costruiamo case... (Officina, 2015)

A. Calafati, Neo.Liberali tra società e comunità, replica al commento di M.Ponti a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

M. Ponti, Non-marxista su un dialogo tra marxisti, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

G. Semi, Tante case non fanno una città, commento a: E. Garda, M.Magosio, C. Mele, C. Ostorero, Valigie di cartone e case di cemento (Celid, 2015)

M. Aprile, Paesaggio: dal vincolo alla cura condivisa, commento a: G. Ferrara, L'architettura del paesaggio italiano (Marsilio, 2017)

S. Tedesco, La messa in forma dell'immaginario, commento a: A.Torricelli, Palermo interpretata (Lettera Ventidue, 2016)

G. Ottolini, Vittorio Ugo e il discorso dell'architettura, commento a: A. Belvedere, Quando costruiamo case, parliamo, scriviamo. Vittorio Ugo architetto (Officina Edizioni, 2015)

F. Ventura, Antifragilità (e pianificazione) in discussione, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

G. Imbesi, Viaggio interno (e intorno) all'urbanistica, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2016)

D. Demetrio, Una letteratura per la cura del mondo, commento a: S. Iovino, Ecologia letteraria (Ambiente, 2017)

M. Salvati, Il mistero della bellezza delle città, commento: a M. Romano, Le belle città (Utet, 2016)

P. C. Palermo, Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

F. Indovina, Pianificazione "antifragile": problema aperto, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

F. Gastaldi, Urbanistica per distretti in crisi, commento a: A. Lanzani, C. Merlini, F. Zanfi (a cura di), Riciclare distretti industriali (Aracne, 2016)

G. Pasqui, Come parlare di urbanistica oggi, commento a: B. Bonfantini, Dentro l'urbanistica (FrancoAngeli, 2017)

G. Nebbia, Per un'economia circolare (e sovversiva?), commento a: E. Bompan, I. N. Brambilla, Che cosa è l'economia circolare (Ambiente, 2016)

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V. De Lucia, Crisi dell'urbanistica, crisi di civiltà, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)

P. Barbieri, La forma della città, tra urbs e civitas, commento a: A. Clementi, Forme imminenti (LISt, 2016)

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S. Tagliagambe, Senso del limite e indisciplina creativa, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

J. Gardella, Disegno urbano: la lezione di Agostino Renna, commento a: R. Capozzi, P. Nunziante, C. Orfeo (a cura di), Agostino Renna. La forma della città (Clean, 2016)

G. Tagliaventi, Il marchio di fabbrica delle città italiane, commento a: F. Isman, Andare per le città ideali (il Mulino, 2016)

L. Colombo, Passato, presente e futuro dei centri storici, commento a: D. Cutolo, S. Pace (a cura di), La scoperta della città antica (Quodlibet, 2016)

F. Mancuso, Il diritto alla bellezza, riflessione a partire dai contributi di A. Villani e L. Meneghetti

F.Oliva, "Roma disfatta": può darsi, ma da prima del 2008, commento a: V. De Lucia, F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi, 2016)

S.Brenna, Roma, ennesimo caso di fallimento urbanistico, commento a: V. De Lucia e F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi 2016)

A. Calcagno Maniglio, Bellezza ed economia dei paesaggi costieri, contributo critico sul libro curato da R. Bobbio (Donzelli, 2016)

M. Ponti, Brebemi: soldi pubblici (forse) non dovuti, ma, commento a: R. Cuda, D. Di Simine e A. Di Stefano, Anatomia di una grande opera (Ed. Ambiente, 2015)

F. Ventura, Più che l'etica è la tecnica a dominare le città, commento a: D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città (Ombre corte, 2016)

P. Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)

F. Indovina, Quale urbanistica in epoca neo-liberale, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

L. Meneghetti, Discorsi di piazza e di bellezza, riflessione a partire da M. Romano e A. Villani

P. C. Palermo, Non è solo questione di principi, ma di pratiche, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

G. Consonni, Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare, commento a: A. Emiliani, Il paesaggio italiano (Minerva, 2016)

 

 

I post

L'inscindibile legame tra architettura e città, commento a: A. Ferlenga, Città e Memoria come strumenti del progetto (Marinotti, 2015)

Per una città dell'accoglienza, commento a: I. Agostini, G. Attili, L. Decandia, E. Scandurra, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017)