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ARCHITETTURA E URBANISTICA PER FARE COMUNITÀ
Commento al libro di Warner Sirtori e Maria Prandi
Jacopo Gardella
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Il libro di Warner Sirtori e Maria Prandi dedicato a uno dei migliori esempi italiani del nuovo indirizzo avviato nel dopoguerra nelle politiche della casa popolare - Il Villaggio Ina-Casa di Cesate. Architettura e Comunità (Mimesis Edizioni, 2016) - fin dal titolo indica chiaramente il suo contenuto mantenendo distinti i contributi dei due autori: "Architettura" e urbanistica sono gli argomenti trattati da Warner Sirtori; "Comunità" è quello di cui si occupa Maria Prandi. Apparentemente disomogenei i due temi in realtà si integrano e si completano a vicenda così come nel progetto del Villaggio architettura e urbanistica hanno saputo combinarsi per dare vita ad una comunità.
Un'architettura nuova ma con radici antiche
L'analisi architettonica condotta da Werner Sirtori - con cura, competenza e attenzione - ha il merito di considerare il Villaggio di Cesate, costruito negli anni Cinquanta, non come un intervento edilizio episodico ma come un esempio da studiare attentamente tenendo presenti due periodi cruciali della storia dell'architettura moderna: il primo compreso tra le due guerre mondiali, che ha visto la nascita del Movimento Moderno di Architettura, il secondo successivo alla seconda guerra mondiale, che ha visto il rapido declino di quello stesso Movimento.
Dei progettisti - Franco Albini, Giovanni Albricci, il gruppo BBPR (originariamente costituito da Gian Luigi Banfi scomparso nel 1945, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers), Enrico Castiglioni e Ignazio Gardella - incaricati di progettare il nuovo complesso di edilizia popolare Ina-Casa, i più anziani (ovvero Albini, Belgiojoso, Gardella, Peressutti e Rogers) appartenevano al gruppo di architetti che negli anni antecedenti la guerra si erano schierati a favore del Movimento Moderno e ne avevano abbracciato con entusiasmo l'indirizzo etico ed estetico. In Italia questo Movimento prende il nome di Razionalismo ed è culturalmente e politicamente allineato all'analogo movimento nato in Germania durante la Repubblica socialdemocratica di Weimar e classificabile come Funzionalismo.
I tratti essenziali dell'architettura del Razionalismo italiano ed europeo, pur con qualche semplificazione, possono essere riassunti in pochi elementi tipici e costanti: volumi edilizi semplici, lineari e privi di ornamenti, simili a nudi solidi geometrici; adozione di finestre orizzontali in alternativa alle tradizionali finestre verticali; sostituzione di persiane con apparecchi avvolgibili; scomparsa del tetto inclinato e adozione generalizzata di coperture piane; abolizione di gronde sporgenti in facciata. Nel Villaggio di Cesate, però, gli stilemi dal Razionalismo d'ante guerra scompaiono interamente: i volumi costruiti cessano di essere nudi solidi geometrici; le finestre da orizzontali tornano a essere verticali e vengono di nuovo oscurate da persiane; sui tetti ricompaiono le falde inclinate e sulle facciate le sporgenze di gronda a protezione dall'acqua piovana. Questa radicale trasformazione può considerarsi la prova di un ritorno al passato, la dimostrazione di un rinnovato interesse per la tradizione e, in particolare, per una tradizione non aulica e monumentale ma paesana e popolare. Di fronte a una simile inversione di rotta viene spontaneo chiedersi perché progettisti che prima della guerra avevano aderito al Movimento Moderno compiono subito dopo un così radicale cambiamento? Perché sentono il bisogno di ribaltare interamente il loro linguaggio architettonico e tornano ad un'architettura più convenzionale, più simile agli esempi offerti dalla tradizione?
Un simile cambiamento di indirizzo a prima vista potrebbe sembrare ingiustificato e poco comprensibile se non si prendesse in considerazione un fatto drammatico e sconvolgente avvenuto pochi anni prima: lo scoppio della seconda guerra mondiale. La guerra - sappiamo tutti - non fu un episodio marginale e secondario; fu una tragedia e - come dice l'aggettivo - una tragedia mondiale ed ebbe un'incidenza fortissima sulle arti, le scienze, la letteratura e tutte le forme di espressione sia di singoli uomini che di intere società. Sarebbe stato possibile, dopo un tale sconvolgimento, coltivare le stesse illusioni di prima? Nutrire le stesse speranze? Mantenere la stessa fiducia? Dimostrare lo stesso ottimismo? Sarebbe stato possibile credere ancora in quell'architettura razionalista che di quelle illusioni, speranze, fiducia e ottimismo aveva fatto la sua bandiera e si era considerata sicura e orgogliosa testimone? Evidentemente no.
In Europa l'Architettura Razionalista era nata in un clima di socialdemocrazia, di solidarietà con i lavoratori, di lotta contro le disuguaglianze sociali. Dopo la seconda guerra mondiale, con la comparsa di due blocchi ideologici e militari duramente contrapposti questi nobili ideali umanitari tramontano e si dissolvono: il mondo occidentale sposa un capitalismo a volte incontrollato e stenta a darsi un vero assetto socialdemocratico, mentre il mondo orientale sprofonda nella dittatura del proletariato ed abbandona il socialismo dal volto umano. Così il sogno di solidarietà sociale che stava alla base dell'Architettura Razionalista si dissolve e svanisce. Il fenomeno si spiega come conseguenza di una serie di ragioni che hanno più a che fare con il contesto politico-sociale in cui l'Architettura Razionalista si colloca che non con un discorso sull'Architettura o sull'Urbanistica considerate in sé e per sé. Vediamo alcune di queste ragioni:
1. Dopo la sciagura della prima guerra mondiale il mondo civile si impegna a instaurare un clima di pacificazione generalizzata. Determinati a sventare ogni futuro conflitto, gli Stati europei instaurano un clima di reciproco rispetto, di fiducioso ottimismo; per effetto di questo indirizzo deliberatamente pacifista nasce la Società delle Nazioni e a Ginevra si costruisce il Palazzo delle Nazioni che avrebbe ospitato la nuova Istituzione internazionale ricca di aspettative e di promesse. A questa ottimistica prospettiva pone violentemente fine lo scoppio della seconda guerra mondiale. Le nazioni che avrebbero dovuto convivere in pace e collaborare in un clima di reciproca intesa rompono i loro accordi e si scagliano le une contro le altre aggredendosi con ferocia. Sarebbe stato possibile, dopo questo triste spettacolo, avere ancora fiducia nella pace universale e in un'Architettura Razionalista che in quella pace aveva creduto? La risposta ovviamente è negativa.
2. La nascita e la maturazione del Razionalismo in architettura coincide con un periodo di frequenti scambi internazionali. I nuovi mezzi di trasporto - treni, transatlantici, aeroplani - permettono di compiere viaggi in paesi lontani e di intensificare i contatti fra le varie nazioni. La stessa Architettura Razionalista, basandosi su principi estetici che considera uguali per tutti e adottando premesse progettuali che suppone condivise dall'intero mondo civile, assume il nome e le pretese di diventare una Architettura Internazionale. Il secondo conflitto mondiale distrugge bruscamente questo sogno; annulla la speranza in un linguaggio comune e generalizzato; favorisce il prepotente ritorno di rigurgiti nazionalisti e l'imporsi di grette chiusure culturali e ideologiche. In questo clima avrebbe potuto l'Architettura Razionalista continuare ad illudersi di perseguire un sistema di principi etici, di obiettivi sociali, di espressioni estetiche condivisi a livello mondiale? La risposta ovviamente è negativa.
3. L'Architettura Razionalista si nutre del pensiero empirico-positivista generato dalle conquiste della scienza e alimentato dalle diffuse applicazioni della tecnica. Nel settore delle costruzioni sia l'industrializzazione edilizia sia la nuova organizzazione dei cantieri favoriscono inedite soluzioni formali prima di allora del tutto impensabili; e facilitano esperimenti costruttivi nuovi e originali. La guerra, scoppiata con violenza, mostra i gravi pericoli causati da quella stessa tecnica in cui l'Architettura Razionalista aveva tanto intensamente creduto ed è inevitabile che l'entusiasmo positivista suscitato in quegli anni si spenga e si dissolva. Di fronte ad armi sempre più micidiali, a strumenti bellici di giorno in giorno più distruttivi, a ordigni via via più devastanti e infine all'evento agghiacciante della esplosione atomica, chi avrebbe ancora nutrito fiducia nel progresso delle Scienze e nei benefici della tecnica? Chi avrebbe potuto sostenere ancora la validità di un'Architettura Razionalista che proprio nell'applicazione di quella tecnica aveva trovato i suoi principali e originali modi di espressione? La risposta ovviamente è categorica: nessuno.
4. L'Architettura Razionalista nutre una convinta fiducia nella chiarezza della ragione e nella lucidità dell'intelletto. Assume cioè la razionalità come premessa imprescindibile della creazione artistica. L'aggettivo razionalista sta appunto a indicare la tensione dell'architettura verso rigorosi principi logici di valore costante e universale. Lo scoppio della guerra è la prova del contrario, la palese dimostrazione di una totale assenza di ragione, di un immane scatenarsi di follie. Sarebbe stato ancora possibile avere fiducia nella razionalità, nell'equilibrio, e nella saggezza dell'uomo? Sarebbe stato ancora possibile sperare nella sopravvivenza di un'Architettura Razionalista fermamente convinta della forza positiva e costruttiva della ragione? La risposta ancora una volta è negativa.
Soprattutto per questi motivi l'architettura italiana dopo la fine del conflitto attraversa una fase di severa autocritica e di profonda revisione. Se la guerra aveva dimostrato il fallimento della ragione in compenso aveva suscitato il risveglio di profondi e generosi sentimenti, aveva favorito la manifestazione di nobili e intensi propositi, aveva dimostrato la capacità di grande solidarietà umana. Recuperare questo prezioso e diffuso bagaglio di valori genuini: ecco il compito che dopo la guerra sentono di dover assumere gli intellettuali, gli artisti, i letterati più sensibili e più partecipi alle vicende del loro tempo. Gli architetti seri, come tutti i veri artisti, non restano insensibili alle vicende tragiche a cui avevano assistito e sentono il dovere di recuperare i profondi contenuti umani che la Storia conserva, risveglia, tramanda. Della Storia, tuttavia, agli architetti razionalisti non interessava l'aspetto aulico e trionfale, ma il volto dei sofferenti, le angosce dei poveri, il dolore degli sconfitti. L'architettura del dopoguerra, infatti, non guarda ai celebri e grandiosi monumenti edilizi del passato ma alle costruzioni modeste e semplici del popolo, alle abitazioni povere e sobrie della gente umile: case di paese, cascine di campagna, baite di valli alpine. Il Villaggio di Cesate è un esempio eloquente di questo ritorno alla Storia, a quella Storia ingiustamente considerata minore che, invece, più di ogni altra caratterizza l'ambiente in cui avevano vissuto le popolazioni italiane.
Il ritorno alla Storia non si verifica solo in Lombardia e non riguarda solo l'Architettura Razionalista di Milano o della vicina città di Como. Contemporaneamente all'attività degli architetti milanesi impegnati nel progetto del Villaggio di Cesate si forma a Roma il gruppo di architetti neorealisti, che fanno capo a Mario Ridolfi, convinti anch'essi che l'Architettura Razionalista abbia fatto il suo tempo e debba aprirsi a nuovi e più attuali contenuti. Gli architetti neorealisti trovano giusto non soltanto opporsi alla retorica dell'ormai passato e sepolto regime ma anche rigettare le asettiche e cerebrali manifestazioni di un'arte d'avanguardia che era divenuta esclusiva, chiusa in se stessa, difficile da comprendere: l'astrattismo in pittura, l'ermetismo in poesia, il sistema dodecafonico in musica, il Razionalismo in architettura sono tutte manifestazioni di un indirizzo artistico nato prima della guerra e promosso da una coraggiosa avanguardia intellettuale, ma divenute dopo il conflitto mondiale manifestazioni inattuali e avulse dalla realtà: apparivano infatti erroneamente lontane dai drammi che avevano colpito l'intera popolazione italiana e soprattutto i ceti popolari; risultavano del tutto incapaci di rispondere ai desideri e ai sentimenti di quanti avevano sofferto; ma soprattutto erano diventate estranee ed incomprensibili per chi, avendo conosciuto la vastità delle recenti tragedie, non poteva apprezzare le sofisticate elaborazioni mentali di un'arte non figurativa e quindi del tutto distaccata dalla natura.
Un'urbanistica nata per dar vita a una comunità
Il Villaggio di Cesate si ispira ai caratteristici paesi della pianura lombarda. Ciò, tuttavia, è vero per quanto riguarda le sue case ma non per la sua conformazione urbanistica. Le case e il loro aspetto architettonico si rifanno ai tradizionali caratteri lombardi mentre l'urbanistica e la sua configurazione planimetrica guardano ai recenti modelli nordeuropei. A questo proposito Warner Sirtori cita i complessi edilizi di Vällingby e di Farsta costruiti alla periferia di città svedesi dopo la fine della seconda guerra mondiale. La differenza fra la struttura urbana di un villaggio storico del Nord Italia e quella di un paese del Nord Europa di recente costruzione è enorme: il villaggio italiano d'anteguerra si presenta come un complesso edilizio compatto, raccolto, addensato; il tessuto edilizio è attraversato da strade e si allarga in piazze, le une e le altre delimitate e racchiuse entro ininterrotte cortine di case; al contrario il paese del Nord Europa postbellico appare come un insieme di edifici distanziati tra di loro, sparsi nel verde, separati gli uni dagli altri da zone di prato e da filari di alberi; sono scomparse strade e piazze situate all'interno del paese, le prime sostituite da percorsi che si snodano nel verde e le seconde trasformate in edifici commerciali decentrati e lontani dalle residenze.
Nel tradizionale panorama italiano vi è - anzi vi era prima che l'urbanizzazione selvaggia degli ultimi decenni lo distruggesse violentemente - un chiaro distacco, una netta separazione fra zona costruita e zona coltivata; una precisa distinzione fra due realtà contrapposte ma complementari: da un lato gli edifici costruiti all'interno del paese e consistenti in bassi caseggiati allineati in successione continua lungo i due bordi di strade spesso tortuose e strette, dall'altro l'ampia estensione del paesaggio naturale e il panorama illimitato della campagna punteggiata da cascine sparse e isolate. Tutto ciò non si riscontra nelle recenti urbanizzazioni realizzate sul modello delle città-giardino nei paesi del Nord Europa; in questi paesi le due realtà rispettivamente urbana ed agreste o meglio silvestre si intrecciano e si compenetrano a vicenda: il verde si insinua tra le case; le case si disperdono nel verde; di strade e piazze tradizionali chiuse fra costruzioni continue non resta più traccia.
Ci si chiede allora per quale ragione i progettisti del Villaggio di Cesate abbiano seguito il modello urbanistico della città-giardino, ripresa dagli esempi post-bellici dei paesi nordici, e non abbiano invece adottato il più vicino e famigliare modello locale offerto dai tradizionali paesi lombardi? La spiegazione può essere trovata ricordando che vi è uno stretto legame fra le realizzazioni artistiche di un popolo, la sua storia politica, le sue manifestazioni civili. Esiste cioè una profonda relazione fra il clima etico di una nazione e le sue manifestazioni estetiche. I paesi del Nord Europa (Inghilterra, Scandinavia, Belgio, Olanda, Svezia) avevano conservato una solida fedeltà ai principi liberal-democratici e avevano orgogliosamente contrapposto la loro costituzione politica ai governi illiberali del centro e del sud Europa (Germania, Spagna, Italia): tutti caduti questi ultimi sotto pesanti dittature. Già prima della guerra una parte della cultura italiana oppressa dal regime fascista guardava con ammirazione ai popoli nord-europei retti da governi liberali. In seguito, durante il tragico decorso del conflitto, la maggioranza degli Italiani prova un sincero sentimento di solidarietà per molti di quei popoli che, come il nostro, vede soffrire sotto l'invasione degli eserciti nazisti. Non vi è perciò ragione di stupirsi se la grande simpatia che l'Italia sente per nazioni dapprima libere e poi vittime come la nostra di un medesimo doloroso destino si sia trasformata in una stima altrettanto grande per le loro manifestazioni artistiche. Sicuramente è anche per questa ragione che i mobili danesi, i vetri finlandesi, gli oggetti di design e di arredo, nonché l'architettura e l'urbanistica dei popoli nord europei diventano per i progettisti italiani modelli da studiare con grande attenzione, esempi a cui guardare con vivo interesse.
La scelta per il Villaggio di Cesate del modello urbanistico nord-europeo comparso nell'immediato dopoguerra e d'altra parte la contemporanea risoluzione di adottare un modello edilizio legato alla tradizione locale rappresenta indubbiamente una mancanza di coerenza da parte degli architetti di Cesate: essi da un lato seguono la recente urbanistica di lontani paesi stranieri dall'altro lato si ispirano all'edilizia storica dei vicini villaggi locali. Nonostante questa contraddizione alla fine il risultato è stato felice: bassa densità edilizia; ridotta altezza degli edifici; distanza non eccessiva fra cortine di case contrapposte; abbondanza di verde e di prati fra i corpi delle costruzioni a schiera; tutto ciò ha offerto un nuovo modo di concepire gli insediamenti umani, un modo dimostratosi capace di adottare gli insegnamenti urbanistici del Movimento Moderno e nello stesso tempo disposto a considerare con attenzione e a rivalutare la Storia locale. Ma soprattutto da parte degli architetti incaricati di progettare l'intero Villaggio di Cesate è risultata lungimirante e saggia la decisione di far dialogare ed unificare le loro architetture, di far prevalere le assonanze piuttosto che le dissonanze, di concordare il carattere dei loro edifici e il volume dei loro corpi di fabbrica così da far sembrare il nuovo complesso simile a un organismo formatosi spontaneamente ed unitariamente, così come nascevano i villaggi di una volta.
A Cesate l'architettura ha ritrovato la stessa uniformità edilizia che si nota negli insediamenti rurali di tutta Italia e che rende ordinato, serio, composto l'aspetto dei nostri vecchi paesi. L'adozione di una medesima tipologia costruttiva, la ripetizione di uno schema edilizio che si mantiene quasi uguale sia nelle planivolumetrie sia nella composizione delle facciate sono indice di un'affinità concordata in anticipo e pienamente condivisa da quanti hanno sviluppato il progetto dell'intero Villaggio.
Se il disegno urbanistico del Villaggio ha guardato all'estero e ha preso a modello la struttura urbanistica dei paesi nordici, l'aspetto planivolumetrico del Villaggio ha mantenuto dei nostri paesi la continuità delle cortine edilizie e l'omogeneità delle tipologie abitative. Tutto ciò si è risolto in una contaminazione positiva, in un'integrazione felice che fa del Villaggio un esempio unico e non facilmente ripetibile.
Warner Sirtori individua nel quartiere di Falchera costruito a nord-est di Torino un esempio di urbanistica poco italiana perché derivata, come quella del contemporaneo Villaggio di Cesate, da un modello scandinavo. L'esempio di Falchera, tuttavia, non raggiunge gli stessi felici risultati di Cesate, la stessa armonica integrazione con il contesto ambientale. A Falchera, infatti, nuoce l'eccessiva altezza dei corpi di fabbrica, tutti costantemente di quattro piani fuori terra, mentre alte solo due piani erano quasi tutte le case di Cesate; disturba inoltre l'eccessiva distanza lasciata tra i lunghi corpi a schiera e l'effetto di dispersione edilizia che ne consegue. Se a Cesate per merito della reciproca vicinanza e della ridotta altezza delle abitazioni si percepisce l'atmosfera calda e cordiale propria di una piccola comunità di paese, a Falchera invece si avverte una sensazione di estraneità e di disagio, simile a quella provata in tante anonime periferie cittadine.
Tra gli inconvenienti che si rimproverano ai progettisti del Villaggio di Cesate vi è la mancanza di un centro comune; l'assenza di un punto di ritrovo e di incontro; l'inesistenza di un vero e proprio 'cuore' della città in cui come in una tradizionale piazza di paese la comunità possa identificarsi e ritrovarsi. Il rimprovero è giusto ma immeritato perché dovuto a mancanza di esatte informazioni sulla travagliata genesi del Villaggio. In realtà una piazza centrale con funzione di centro civico e commerciale era stata saggiamente prevista dai professionisti e collocata non lontana dalla stazione ferroviaria in posizione baricentrica rispetto alla intera area del Villaggio: la localizzazione era molto indovinata perché obbligava a essere percorsa da quanti partono o arrivano al Villaggio usando la Ferrovia Nord; ed era facilmente raggiungibile dalle abitazioni poste anche nei lontani margini dell'area urbanizzata. Uno sfortunato cambiamento governativo del programma finanziario ha improvvisamente decurtato le risorse stanziate per la costruzione dell'intero insediamento e ha sconsideratamente sacrificato la costruzione della piazza. La ferita inferta alla completezza e all'integrità del Villaggio è stata grave ed ancora oggi è percepibile con rammarico. L'assenza della piazza è un vuoto non ancora colmato; una mancanza lamentata dall'unanimità dei residenti.
Un esempio di faticosa ma riuscita integrazione
La sezione del libro intitolata Gli abitanti raccontano contiene interviste a molti di coloro che hanno abitato nel Villaggio di Cesate fin dal tempo della sua realizzazione. La raccolta delle numerose testimonianze riunite e selezionate da Maria Prandi restituisce il clima e l'atmosfera in cui si sono trovati a vivere e convivere i primi residenti nel Villaggio tutti arrivati da differenti e lontane regioni del Meridione. Dai resoconti dei nuovi abitanti emergono le grandi difficoltà da loro incontrate a causa delle incomprensioni e della diffidenza dimostrate dalla popolazione autoctona. Provvidenziale fu la presenza di due figure molto stimate, sinceramente amate, considerate da tutti gli abitanti del Villaggio come saggi maestri e fidati amici: il parroco Don Umberto e il maestro di scuola elementare Giuseppe Coloru. Numerose testimonianze concordano nel riconoscere l'enorme influenza positiva esercitata da questi due indimenticabili personaggi. Generosi, attivi, appassionati del loro lavoro sentito come una vera missione sociale, essi sono stati solidi punti di riferimento e fonte di conforto per i nuovi abitanti arrivati dal lontano Sud Italia. La figura di Don Umberto, avvolta da stima e affetto, si contrappone a quella del parroco del vecchio paese che, al contrario, risulta essere persona poco caritatevole; incapace di offrire ai nuovi arrivati l'accoglienza dovuta ad ogni straniero giunto da lontano; e paradossalmente sprovvisto di quello spirito cristiano che per la sua posizione avrebbe dovuto impersonare.
La difficile convivenza tra gli abitanti del paese di Cesate e quelli del nuovo Villaggio sembra anticipare e preludere a un altro ben più grave, preoccupante, drammatico fenomeno a cui si assiste nei nostri giorni: il problema dell'accoglienza da offrire ai numerosi migranti provenienti dai paesi asiatici ed africani e diretti in Europa per cercarvi rifugio ed assistenza. Il microcosmo della Cesate di allora pare rispecchiare il macrocosmo dell'Europa di oggi. Difficoltà e problemi di integrazione sono simili, sebbene di dimensioni non paragonabili. Eppure l'esito complessivamente positivo raggiunto a Cesate e la raggiunta convivenza ormai consolidata e pacifica tra due comunità inizialmente distanti e ostili lascia trapelare una luce di speranza e intravvedere uno spiraglio di fiducia di fronte alla drammatica situazione dei nostri giorni.
Le testimonianze degli abitanti del Villaggio sono franche e sincere, prive di rancori e di malanimo, mai pessimiste né scoraggiate. Averle sapute raccogliere, ordinare ed esporre è il grande merito di questo serio e ben documentato libro. Saperle ascoltare e cogliervi la lezione che da esse traspare è senza dubbio un invito per chi ancora crede in un'Europa civile, generosa e accogliente.
Jacopo Gardella
N.d.C. - Jacopo Gardella, architetto, ha iniziato la sua carriera professionale con il padre Ignazio. Assistente universitario di Pier Giacomo Castiglioni e Aldo Rossi, ha insegnato come docente a contratto nelle Facoltà di Architettura di Pescara-Chieti, Torino, Venezia, Ascoli Piceno e Milano-Bovisa. Ha collaborato con "L'Europeo", la Radio Svizzera Italiana e "La Repubblica". Tra le sue opere: sezione italiana della XIV Triennale di Milano, con M. Platania, 1° premio (1968); sala di lettura del Politecnico di Milano (1994-2000); adeguamento del Teatro G. Rossini a Pesaro, con A. Ciccarini, 1° premio (1997- 2003); arredo della "Sala Lalla Romano" all'interno della Pinacoteca di Brera a Milano (2013).
Per Città Bene Comune ha scritto: Mezzo secolo di architettura e urbanistica, dialogo immaginario sulla mostra 'Comunità Italia' (5 marzo 2016); Disegno urbano. La lezione di Agostino Renna, commento al libro curato da Renato Capozzi, Pietro Nunziante, Camillo Orfeo (13 aprile 2017).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 17 NOVEMBRE 2017 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
in redazione: Elena Bertani Oriana Codispoti
cittabenecomune@casadellacultura.it
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Gli incontri
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Gli autoritratti
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Le letture
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P. Bassetti, La città è morta? Il futuro oltre la metropoli, commento a: A. Balducci, V. Fedeli e F. Curci (a cura di),Oltre la metropoli (Guerini e Associati, 2017)
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B. Petrella, I limiti della memoria tra critica e comportamenti, commento a: A. Belli, Memory cache (Clean, 2016)
P. Pileri, La finanza etica fa bene anche alle città, commento a: A. Baranes, U. Biggeri, A. Tracanzan, C. Vago, Non con i miei soldi! (Altreconomia, 2016)
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D. Patassini, Lo spazio urbano tra creatività e conoscenza, commento a: A. Cusinato, A. Philippopoulos-Mihalopoulos (a cura di), Knowledge-creating Milieus in Europe (Springer-Verlag, 2016)
F. Bottini, La città è progressista, il suburbio no, commento a: R. Cuda, D. Di Simine, A. Di Stefano, Anatomia di una grande opera (Ed. Ambiente, 2015)
E. Scandurra, Dall'Emilia il colpo di grazia all'urbanistica, commento a: I. Agostini (a cura di), Consumo di luogo (Pendragon, Bologna)
M. A. Crippa, Uno scatto di "coscienza storica" per le città, commento a: G. Pertot, R. Ramella (a cura di), Milano 1946 (Silvana, 2016)
R. Gini, Progettare il paesaggio periurbano di Milano, recensione di V. Gregotti et al., Parco Agricolo Milano Sud (Maggioli, 2015)
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P. Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)
F. Indovina, Quale urbanistica in epoca neo-liberale, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)
L. Meneghetti, Discorsi di piazza e di bellezza, riflessione a partire da M. Romano e A. Villani
P. C. Palermo, Non è solo questione di principi, ma di pratiche, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)
G. Consonni, Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare, commento a: A. Emiliani, Il paesaggio italiano (Minerva, 2016)
I post
L'inscindibile legame tra architettura e città, commento a: A. Ferlenga, Città e Memoria come strumenti del progetto (Marinotti, 2015)
Per una città dell'accoglienza, commento a: I. Agostini, G. Attili, L. Decandia, E. Scandurra, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017)
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