LA POLITICA COME PROFESSIONE?

 

Questa serata, abbiamo scritto nell’invito, è organizzata in occasione dei novant’anni di Aldo Tortorella: un’iniziativa che la Casa della Cultura ha promosso con particolare piacere, per sottolineare il legame forte di questo centro culturale, di questo ambiente culturale, con la vicenda politica e culturale di Tortorella.

Pochi mesi fa, per la celebrazione del nostro Settantesimo, siamo partiti proprio dalla vicenda culturale che è entrata nella storia come “la scuola di Milano” e che ha avuto un ruolo di assoluto rilievo negli anni della Liberazione e della Ricostruzione di Milano. Abbiamo riproposto il razionalismo critico banfiano, il suo umanesimo, quello da lui sintetizzato nel suo ultimo grande saggio, “L’uomo copernicano”, le motivazioni della sua partecipazione alla Resistenza. Abbiamo anche ragionato su quella generazione di giovani di grande talento – da Paci a Preti, Cantoni, Bertin, Formaggio, Anceschi, Vittorio Sereni, Antonia Pozzi – filosofi, letterati, poeti, raccolti attorno al maestro. Lo abbiamo fatto perché quello fu l’humus culturale in cui si gettarono le radici di questa Casa della Cultura e dovette trattarsi di radici ben robuste se Fulvio Papi – ultimo esponente di quella scuola – ha potuto concludere la sua prolusione dicendo che “quelle radici continuano a fiorire”.

Ebbene, Aldo Tortorella può essere considerato a tutti gli effetti parte di quella “scuola”, di quel cenacolo culturale, di quell’orizzonte culturale e filosofico.

La sua biografia politica ci dice che partecipò giovanissimo alla Resistenza, prima a Milano e poi a Genova, che durante la Liberazione, diciannovenne, era già al suo posto come caporedattore dell’Unità di Genova e che da allora ad oggi non ha mai interrotto il suo costante impegno pubblico. La sua biografia ci parla di un alternarsi tra il lavoro al giornale, di cui divenne anche direttore, e al partito: è stato segretario provinciale e regionale del PCI qui a Milano, ebbe ruoli di grande rilievo nella direzione nazionale – voglio ricordare gli otto anni di responsabile della Commissione Cultura, il periodo in cui ebbi per la prima volta la possibilità di interagire con lui – e poi nella segreteria nazionale, a fianco di Enrico Berlinguer e di Alessandro Natta, fino all’89 quando decise di opporsi a quella che è entrata nella storia come la “svolta”, il cambio di nome e di simbolo del PCI, la fondazione del nuovo partito, il PDS. Dopo la guerra nella ex Jugoslavia, ha lasciato in silenzio il suo vecchio – nuovo partito, ma è restato al centro di una fitta rete di relazioni e discussioni – anche come direttore di “Critica marxista” – per continuare a sollecitare una riflessione e un ripensamento sui “fondamenti della sinistra”.

Meno noto, invece, è che Tortorella trovò ostinatamente il modo e il tempo, nel 1956, in mezzo a una missione nella Jugoslavia di Tito e a una nella Polonia di Gomulka, per laurearsi con Antonio Banfi con una tesi su “il concetto di libertà in Spinoza”. E, possiamo aggiungere, nel Tortorella che abbiamo conosciuto, in quel suo rigore intellettuale mescolato ad una inesauribile curiosità, è rimasto sempre molto della giovanile lezione banfiana, di quella tensione critica e di quella ricerca ininterrotta che costituivano uno dei tratti distintivi del razionalismo critico del suo maestro.

A ben pensarci, anche nell’impostazione di questa serata possiamo risentire le tracce di quell’antica lezione. C’è qualcosa di forte, di culturalmente coraggioso, nel suggerimento dello stesso Tortorella di discutere questa sera “La politica come professione?”. Si tratta, a un tempo, del bilancio di una vita per tutti coloro che nel secolo scorso, spesso da ragazzi, hanno scelto consapevolmente la politica come professione e nello stesso tempo di un interrogativo che aiuta ad andare alle radici della grande crisi della politica dei nostri tempi. Ci vuole molto pensiero e altrettanta tensione critica per tentare oggi di dare una risposta a questi interrogativi.

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I nostri interlocutori entreranno nel merito dell’interrogativo. Vorrei solo cercare, in poche parole, prima di dare loro la parola, di contestualizzare questo interrogativo nell’oggi, rimarcando la profonda differenza con quel Novecento che abbiamo lasciato alle spalle.

Oggi: vuol dire “ai tempi di Trump”, dell’outsider miliardario che ha vinto cavalcando le tensioni razziali e il rancore verso l’establishment politico; ai tempi dei populismi etnico – nazionalisti che percorrono l’Europa proponendo facili scorciatoie, oppure ancora, per restare a casa nostra, ai tempi di una lunga interminabile campagna elettorale referendaria nella quale, purtroppo da parte di esponenti apicali del centrosinistra, si lanciano con leggerezza ripetuti proclami contro i politici e contro la “casta”, indicando con questa proprio una presunta casta politica.

In realtà questi sono epifenomeni di processi molto più profondi, sono parte di quel “grande cambiamento” innescato dalla globalizzazione e dai nuovi travolgenti sviluppi dell’innovazione tecno – scientifica, il tutto, come ben sappiamo, dentro quell’ideologia neoliberista che si è imposta come “pensiero unico”. Tutto è in rapido cambiamento, la stessa democrazia. Bernard Manin ha parlato di una nuova fase della democrazia, di “democrazia del pubblico”. Ma forse siamo già oltre le stesse riflessioni di Manin. Il ruolo sempre crescente della Rete sta radicalizzando i fenomeni di disintermediazione e di tribalismo: l’ultima terribile e sconcertante discussione riguarda il ruolo dei “fake”, dei falsi (pensiamo alle 960 000 – sic ! – condivisioni del falso endorsement di papa Francesco per Trump).

Con la potenza dirompente del digitale siamo costretti a fare i conti: anche noi, qui, in questo momento, siamo in Rete, si può seguire questo incontro da ogni parte del mondo e, un secondo dopo che sarà terminato, potrà essere riascoltato quando e dove si vorrà. La Casa della Cultura ha scelto di non sfuggire alla sfida digitale, di affrontarla, ma cerchiamo di ragionare a fondo sulle ambigue e dirompenti conseguenti della digitalizzazione.

La crisi della politica è parte di questo mutamento della democrazia stessa. Facili risposte non ci sono: ciò che possiamo fare è portare a fondo la critica e l’analisi. Come diceva Spinoza (permettetemi la citazione, come un rimando agli studi giovanili di Tortorella): “non ridere, né piangere, né detestare, ma “intelligere”, comprendere”: proviamo a partire da qui. Magari, ed è questo l’unico suggerimento che mi sento di aggiungere, facendo rivivere, confrontandoci davvero, con alcune grandi lezioni del pensiero politico.

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L’interrogativo di questa sera ci riporta inesorabilmente a Max Weber. Nella sue celebre lezione, “La politica come professione”, c’è la piena consapevolezza di stare affrontando una questione dirimente. Egli distingue nettamente chi vive “per la politica” da chi vive “di politica”. E precisa: tre qualità sono decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità e lungimiranza. Aggiunge: “non deve mancare all’azione politica questo suo significato di servire una causa, con una sua intima consistenza. E’ una questione di fede … sempre deve avere una fede. Altrimenti la maledizione della nullità delle creature incombe effettivamente anche sui processi politici esteriormente più solidi”.

La sua grande lezione ci parla ancora, anche se non risuona tranquillizzante alle nostre orecchie. C’è nel ragionamento di Weber l’esplicita “coscienza del tragico” intimamente connessa con l’attività politica e che ci aiuta a capire quel suo richiamo al “capo, al carisma, al demagogo, alla democrazia autoritaria” come unica soluzione per evitare il “dominio della cricca”.

Per questo a me sembrerebbe saggio fare interagire quella grande lezione con quella di un altro classico del pensiero, oggi quasi del tutto dimenticato in Italia. Un classico italiano “sconosciuto” in Italia, come era scritto in una splendida lettera inviataci tempo fa da un gruppo di ragazzi che si erano imbattuti ed erano rimasti affascinati dalla sua coerenza di vita e di pensiero. Questo “sconosciuto” – cui questi ragazzi avrebbero voluto essere introdotti – era (come di certo avete capito) Antonio Gramsci.

Vi sono tanti modi possibili per leggere Gramsci, ma c’è uno che oggi mi sembra di straordinaria attualità. Il suo pensiero politico è tutto costruito in polemica con gli elitisti: è il tentativo più organico ed elaborato di rovesciarne l’impostazione. Egli cerca di pensare un percorso politico che sia sottratto al controllo delle élites: ecco la sua esperienza giovanile dei Consigli di fabbrica e, poi, in età matura, tutta la sua riflessione per rovesciare il rapporto dirigenti – diretti. Ovviamente, come ben sappiamo, la sua lezione ruota attorno ad una possibile funzione pedagogica della politica ed oggi, in tempi di individualismo che tende a tracimare di continuo in iper – individualismo, molti potrebbero sorridere all’dea stessa di una politica pedagogica.

Forse hanno ragione, ma forse le cose possono essere guardate anche da un altro lato. La politica non può prescindere dalla battaglia sul “senso comune”, da quella che in altri tempi è stata chiamata la battaglia delle idee. In altre parole la grande crisi della politica è tutta lì, nella gabbia avvolgente del pensiero unico: per ritrovare il valore della politica oggi il problema è spezzare la logica per la quale vi è un’unica narrazione in campo.

A me sembra, e concludo, che proprio qui vi sia il possibile punto di interazione tra il pensiero dei nostri due grandi classici del Novecento, ovvero che solo dentro un confronto e un conflitto esplicito tra diverse narrazioni sia possibile vivere “per la politica” e “servire una causa con passione, senso di responsabilità e lungimiranza”.

Grazie

Mercoledì 23 novembre 2016 ore 21 

In occasione dei novant’anni di Aldo Tortorella

LA POLITICA COME PROFESSIONE?

Ne hanno parlato: Ferruccio Capelli, Elena Lattuada, Carmen Leccardi, Giordana Masotto, Giuliano Pisapia, Mario Ricciardi, Aldo Tortorella 

UMBERTO VERONESI, UN ILLUMINISTA MILANESE

Ieri sera, lunedì 14 novembre, si discuteva in Casa della Cultura de “Il paziente oncologico”: il secondo incontro di un ciclo che ragiona sulla centralità del malato, ovvero di una persona di cui prendersi cura, attorno a cui costruire una rete di solidarietà umana.
Ad apertura dell’incontro l’oncologo Alberto Scanni, uno dei curatori del ciclo, ha ritenuto doveroso ricordare la figura di Umberto Veronesi, recentemente scomparso.

Tante cose sono state dette in questi giorni sulla figura di questo protagonista della vita scientifica e culturale milanese: un grande medico, uno scienziato di fama, uno straordinario organizzatore della medicina prima come presidente dell’Istituto dei Tumori e poi come fondatore dello Istituto Europeo di Oncologia. Altri ancora, giustamente, hanno sottolineato la sua spinta a innovare la relazione con il paziente oncologico, come evidenziato dalla sua lungimirante e anticipatrice campagna a fianco delle donne colpite dal tumore al seno.

Questo ritratto è emerso efficacemente anche ieri sera. Ma a tutto questo, forse, si può aggiungere ancora qualcosa. Si può ricordare la sua fiducia nel metodo scientifico e nella scienza e la vigorosa difesa della libertà di scelta delle persone. Tante sono state le battaglie pubbliche di Veronesi a difesa della laicità, come quella, indimenticabile, a favore del testamento biologico.

Per queste ragioni la figura e l’opera di Umberto Veronesi appiano come un’espressione significativa di quell’humus culturale illuminista, dalle profonde radici, che continua a permeare la città di Milano. Insomma, Umberto Veronesi può essere ricordato a pieno titolo come una figura esemplare dell’illuminismo milanese e lombardo.

L’AMARA LEZIONE DEL VOTO AMERICANO

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Il 13 maggio era ospite in Casa della Cultura Richard Sennet. Nel suo intervento lasciò cadere una previsione: nelle prossime elezioni americane vincerà Donald Trump. In pochi fecero caso alla sua affermazione. Ma le cose sono andate proprio così.

Il celebre sociologo aveva colto in tempo la brutta aria che tirava in America: un pezzo grande del paese era animato da rabbia e ostilità verso l’establishment. Sennet argomentava che i Democrats avrebbero fatto cosa saggia a valutare con attenzione i sondaggi che in quel periodo indicavano in Bernie Sanders l’unica possibilità per stoppare l’ascesa di Trump.

Non si sa e non si potrà mai più dimostrare se il ragionamento di Sennet avesse o meno qualche fondamento: dinanzi alla brutale evidenza dei fatti una discussione a posteriori basata sui “se” è priva di senso.

Restano però, ingigantiti dalle enormi ripercussioni di questi risultati elettorali, i problemi da tempo focalizzati nelle discussioni in Casa della Cultura. Ovvero il divario crescente tra i problemi e le aspettative di tanti cittadini, soprattutto i più disagiati, e le politiche delle forze progressiste. Il problema sta esplodendo, in modo più o meno dirompente, in tutti i paesi occidentali: quasi dappertutto si è aperta un’autostrada per la demagogia dei populisti.

Urge una riflessione vera, profonda, a tutto campo: essa deve mettere in discussione i valori e la cultura cui ancorare le forze progressiste. Per imprimere al più presto una correzione di rotta. Con la speranza che vi siano forze capaci di ascoltare, discutere, mettersi in discussione e imboccare strade nuove.

NON C’È SOLO GORINO

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Milano, ieri martedì 1 novembre, ci ha regalato una giornata particolare: una folla festosa che si è riunita davanti alla caserma Montello, in via Caracciolo, per salutare l’arrivo di un gruppo di profughi.

Non era scontato che accadesse. Anche qui nelle settimane precedenti vi erano stati segnali inquietanti e minacciosi: un presidio contro il preannunciato arrivo dei profughi, una capillare raccolta di firme per impedirlo (ne sono state raccolte non poche: oltre sei mila), tante dichiarazioni bellicose di esponenti delle forze della destra, dalla Lega a Casa Pound.

La cosa importante è che questa volta in tanti hanno reagito, con intelligenza e con passione. Numerose associazioni del quartiere hanno cominciato a incontrarsi per valutare che cosa fare, hanno formato un Comitato con molte e larghe adesioni, hanno avviato un lavoro capillare di sensibilizzazione e di preparazione nella zona 8 di Milano dove è collocata la caserma Montello. Hanno anche deciso di dare un segno forte all’opinione pubblica: una festa di accoglienza.

Il risultato è stato perfino sorprendente: migliaia di persone si sono radunate davanti alla caserma e hanno dato vita, con attori e musicisti, a un happening festoso dalla mattina fino al tardi pomeriggio.

Ovviamente, tutti i presenti erano consapevoli dei mille e mille problemi che si presenteranno nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Eppure tutti i presenti, nel primo freddo pungente del novembre milanese, erano raggianti. Per una ragione molto semplice: stavano dimostrando che, se si vuole, in Italia in campo non c’è solo la destra facinorosa e xenofoba. Con passione e intelligenza si può fare sentire, anche sulla questione spinosa e difficilissima dell’immigrazione, un’altra voce. Insomma, nelle cronache italiane non c’è posto solo per il brutto e inquietante episodio di Gorino!