Francesco Ventura  
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COSÌ NON SI TUTELA NÉ IL SUOLO NÉ IL PAESAGGIO


Commento al libro curato da Anna Marson



Francesco Ventura


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La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il Piano della Toscana, edito da Laterza nel 2016 con il contributo della Regione Toscana che ne detiene la proprietà letteraria, è un volume di 294 pagine. Raccoglie due testi di autori esterni e i contributi di una trentina di ricercatori formanti il gruppo di lavoro che ha collaborato con l'ex Assessore all'Urbanistica della Regione Toscana Anna Marson, curatrice del volume, alla formazione della legge n. 65 del 2014 per il Governo del Territorio e al conseguente Piano di Indirizzo Territoriale con valenza paesaggistica. Per ovvie ragioni di spazio non è possibile analizzare dettagliatemene e commentare i singoli contributi, tanto più che si tratta di testi specialistici per i quali occorrono competenze specifiche. Inoltre, con buona approssimazione si può ritenere che tali contributi, proprio perché specialistici, per quanto posti come mezzi per il perseguimento dello scopo primario della sperimentazione, siano poco partecipi dell'ideologia territorialista. Conviene dunque concentrarsi soprattutto sul contributo teoretico di Alberto Magnaghi. Il territorialismo e la scuola "territorialista" da lui ispirata stanno alla base della "sperimentazione".

 

La teoria territorialista

Vediamo quali sono gli assunti fondamentali della teoria magnaghiana. Il territorio è "vivente", nel senso che è una "coevoluzione" continuamente generata dall'interazione tra processi di insediamento umano e ambiente naturale originario e via via costruito in successive stratificazioni. In quanto così vivente ha "natura mortale: […] cicli di vita-crescita-decadenza-morte, corrispondenti al decorso storico […] delle diverse civilizzazioni che lo producono […]. In sintesi - conclude Magnaghi -, il territorio, l'ambiente dell'uomo, muore e torna natura" [p. 151]. Nella successione storica dei cicli il nostro è tempo di decadenza - sentenzia Magnaghi. La "civiltà delle macchine e l'urbanizzazione contemporanea" hanno interrotto "il processo di coevoluzione" [p. 152]. Si tratta dunque di riscoprire le "regole genetiche" corrette e intraprendere una nuova opera di "riterritorializzazione". Sulla base di questa teoria del nascere e del perire dei territori (che non è una metafora), formulata la diagnosi dell'attuale stato di "deterritorializzazione" e in vista dello scopo primario della "riterritorializzazione", Magnaghi intende usare, assegnando loro i nuovi contenuti, gli strumenti di governo del territorio già in vigore, ossia la pianificazione spaziale e la tutela del patrimonio in specie paesaggistico. Si tratta di sfruttare la suddivisione del piano in una parte strategica e nell'altra statutaria già consolidata nelle leggi della Toscana. Nella prima il piano rende esplicito il progetto di riterritorializzazione e non più la zonizzazione d'uso del suolo come nell'urbanistica tradizionale. La seconda statuisce le "invarianti strutturali" non più intese come oggetti fisici, ma "regole statutarie" che "indicano le corrette relazioni fra insediamento e ambiente per una buona trasformazione e riproduzione dell'intero territorio regionale inteso come patrimonio […]. Ciò che si configura come invariante - chiarisce Magnaghi - non sono colline, strade, paesaggi urbani e rurali, ma regole di trasformazione che consentono la riproduzione del loro funzionamento, della loro identità e bellezza" [pp. 149-150]. Ciò implica, come è detto anche nell'introduzione della curatrice, oltrepassare la tutela paesaggistica basata sui "vincoli". L'intento è dunque di portare a compimento l'integrazione - da sempre promossa dagli urbanisti - tra conservazione del paesaggio e pianificazione, ancor meglio di assorbire nella pianificazione territoriale tutela e valorizzazione del paesaggio. Le "regole statutarie" sono infatti intese come capaci di produrre nuovi paesaggi con qualità equipollenti a quelli ereditati.

 

Commento critico

Proviamo a valutare se vi sia o meno un effettivo superamento della tutela vincolistica e quale senso esso eventualmente abbia rispetto al senso originario della tutela patrimoniale. Come pure valutare se la pianificazione proposta sia o meno un superamento concreto di quella tuttora in vigore basata sulle destinazioni d'uso di ogni particella catastale.

Vincoli e regole

Cominciamo a osservare che dire di voler sostituire i "vincoli" con "regole" è un dire privo di senso, perché le regole, in generale qualsiasi norma, sono vincoli. E con norme si ha che fare quando si scrivono leggi e redigono piani. Stabilire regole di "corretta relazione fra insediamento e ambiente" significa vincolare a questo scopo primario l'uso dei suoli escludendo altri usi tecnicamente possibili. In altri termini, se i tradizionali vincoli di tutela del paesaggio si applicano ad alcune porzioni di territorio, il territorialismo lo vuole vincolare per intero, dicendo di non voler più vincolare. Il fine nascosto, peraltro ingenuo perché irrealizzabile nell'attuale ordine giuridico, è contendere alle Soprintendenze il potere di tutela del paesaggio. Basta aver presente che la materia non è stata trasferita dallo Stato alle Regioni ma solo in parte delegata. L'intento di superare il vincolismo appare dunque concettualmente confuso e tecnicamente velleitario.

Il proposito dei territorialisti di perseguire non tanto la conservazione degli oggetti fisici ereditati dalla storia, quanto le regole che hanno governato nel lungo periodo la loro produzione, implica la negazione radicale - probabilmente inconsapevole - del concetto originario di patrimonio e della sua tutela. Inconsapevole, perché non viene sviluppata un'argomentazione che confuti la tradizione, né s'incontra un'argomentazione che fondi il proposito territorialista di oltrepassarla. Vediamo più analiticamente perché il territorialismo magnaghiano è questa negazione. La chiave per comprendere il senso originario del patrimonio è il diverso rapporto che nel nostro tempo viene a instaurarsi col passato rispetto alle epoche premoderne. Non a caso Alois Riegl, tra i primi a osservare con acume il fenomeno, inizia la sua nota conferenza del 1901, Il culto moderno dei monumenti, affermando che "Si chiama storico tutto ciò che è stato e che oggi non è più", intendendo con questo constatare cosa intendiamo per passato perfetto, compiuto. E Riegl così prosegue: "Secondo i più moderni concetti noi colleghiamo ciò con questo ulteriore modo di vedere: quello che è stato una volta non può più essere di nuovo e tutto ciò che è stato rappresenta l'anello insostituibile e inamovibile di una catena di sviluppo". Il nocciolo di ogni "concezione storica moderna" è - dice Riegl - "l'idea dello sviluppo": "tutto quello che ha avuto luogo dopo è condizionato da ciò che è stato prima". Ne consegue, conclude Riegl, che "qualunque attività e ciascun destino umano, del quale ci sia pervenuta una testimonianza o notizia, senza eccezione può rivendicare un valore storico: in fondo ogni avvenimento storico vale per noi come insostituibile".

Riflettiamo su queste constatazioni. Se la conoscenza del passato è nel nostro tempo fondamentale quanto mai prima d'ora e se il passato è ciò che non-è più e non può più ritornare, come lo possiamo conoscere? Il non più esistente è logicamente l'inconoscibile, a differenza delle cose esistenti, che sono presenti ai nostri sensi e alla nostra esperienza attuale e perciò note. Sicché la conoscenza del passato non può che essere un costrutto teorico, quindi fallibile, mediato per via interpretativa dalle cose presenti alle quali attribuiamo valore di traccia fisica di ciò che non-è più, ossia del passato perfetto, compiuto. Ogni distruzione di oggetto fisico è perdita di memoria di un qualche passato. Questo è l'essenziale originario senso moderno del patrimonio, da cui è conseguita l'istituzione di una tutela pubblica in forza di legge. È ovvio che questo implica una rigorosa attività, in specie scientifica, di selezione di tracce, documenti, testimonianze di varia specie a seconda dell'importanza che in quel momento viene attribuita a determinati eventi storici e alle loro presunte tracce. Dannosi sono sia l'eccesivo oblio sia l'inflazione di ricordi. Per questo l'attività di conservazione di oggetti fisici non è qualcosa di inanimato, di statico, non è pura immobilizzazione come spesso si tende superficialmente a pensare. Le interpretazioni della storia variano, costituiscono una molteplicità in divenire. Si compiono selezioni, si stabiliscono gerarchie a loro volta variabili dei medesimi documenti, alcuni si svalutano altri si rivalutano e così via. E inoltre, in specie per i suoli e ciò che vi sta su, case e alberi, vi è un movimento dialettico inevitabile tra valori storici che ne richiedono impieghi tutelanti e valori d'uso attuali che ne reclamano impieghi trasformanti. È evidente che conservare significa progettare tanto quanto innovare. Tale senso moderno del patrimonio, in relazione al quale le leggi di tutela sono state emanate, è qualcosa di indiscutibile? No di certo, lo è come qualsiasi altra concezione, sia al livello tecnico scientifico, sia al livello logico filosofico, in specie per quanto riguarda il senso del passato che sottoposto a rigorose speculazioni lascia emergere notevoli aporie (vedi Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile, 2005). Ma se si dice di volerlo oltrepassare, allora se ne deve innanzitutto riconoscere le regioni e il grado di potenza, e lo si deve poi confutare con solide e chiare argomentazioni che nel volume in esame non è dato leggere. Lo si ritiene, senza motivazioni, da oltrepassare e oltrepassabile con una semplice affermazione di volontà, che perciò è solo una preferenza etico-ideologica di un gruppo ristretto di persone.

Su questa minoritaria intersoggettività si è preteso costruire una legge e un piano per l'intero territorio regionale da imporre ai suoi abitanti (per lo più ignari ed estranei al territorialismo), il cui linguaggio gergale, peraltro, è alquanto oscuro per chiunque, eppure è stato riversato in abbondanza dai saggi tal quale nei voluminosissimi testi normativi di legge e piano, che - è altamente probabile - pochissimi leggeranno mai per intero. Possiamo infine notare che le "regole statutarie", quali "invarianti strutturali", che dovrebbero guidare il "corretto" rapporto insediamento ambiente, il territorialismo intende ricavarle attraverso uno studio del territorio "morfotipologico" e uno "storico-strutturale". È evidente che ciò implica la presenza fisica di tali forme territoriali che, se non in precedenza conservate non esisterebbero attualmente, impedendo così la possibilità attraverso l'approccio "storico-strutturale" di interpretare le regole di lunga durata che si vanno cercando. Peraltro, tali forme vengono lette senza che se ne interpreti il senso, ossia per quali scopi ormai passati siano state nel tempo realizzate - e, certo, non per il puro gusto di ottenere quelle forme fini a sé stesse. L'affermazione, dunque, che da conservare sono le regole, e queste costituiscono il patrimonio e non "colline, strade, paesaggi urbani e rurali" è in tutta evidenza contraddittoria, perché senza la conservazione di questi oggetti fisici non sarebbe possibile tentare di rintracciare ipoteticamente le regole della loro produzione e riproduzione, le quali, attualmente, sono un passato, ossia ciò-che-non-è-più. Se poi si possa far ritornare il passato (le regole che secondo la diagnosi territorialista il macchinismo del nostro tempo ha distrutto), e in che senso, è domanda che dovrebbe porsi ai territorialisti, ma che loro stessi non sembrano porsi.

Invarianti strutturali

Secondo l'approccio territorialista, cosa sono in concreto le "invarianti strutturali"? Questa la definizione esplicita, perciò posta in corsivo nel testo: "Le invarianti strutturali descrivono e rappresentano l'organizzazione, il funzionamento e la forma delle relazioni fra gli elementi che compongono la struttura di un neoecosistema territoriale, ovvero individuano le regole genetiche e le regole di trasformazione che consentono la riproduzione e lo sviluppo dei valori patrimoniali del sistema territoriale stesso, garantendo la relazione coevolutiva fra insediamento umano e ambiente" [pp. 152-153]. Sono quattro le invarianti che devono sostanziare lo "Statuto del territorio" nel "Piano regionale di indirizzo territoriale con valenza paesaggistica": 1) "equilibri idrogeomorfologici"; 2) "qualità della rete ecologica"; 3) "policentrismo dei sistemi urbani e insediativi"; 4) "qualità dei paesaggi rurali" [p. 153].

Penso non sia facile per chiunque non sia avvezzo al lessico proprio del territorialismo magnaghiano, zeppo di neologismi, comprendere con sufficiente chiarezza quali cose della quotidiana realtà di chi abita il territorio nominino le parole con cui le 'invarianti' sono definite. Il ché è già di per sé preoccupante, perché le "regole statutarie", emanate in forza di legge, dovrebbero essere immediatamente comprensibili a chiunque, se si vuole che siano seguite. A meno di non pensare a una successiva gigantesca opera di conversione degli umani abitanti alla dottrina territorialista sul concetto di neoecosistema e sui modi di insediarvisi. Occorrerebbe qualcosa di analogo alla conversione alla verità filosofica dei prigionieri che Platone illustra nel celebre mito della caverna. Il lettore però può, per un momento, sperare che emerga chiarezza dal paragrafo dedicato alla "Metodologia di definizione delle invarianti". Ma leggendo il paragrafo si resta delusi, ancor più perplessi e l'oscurità si inspessisce, leggete: "Per interpretare il territorio come neoecosistema (organismo vivente) dobbiamo perciò - scrive Magnaghi - far riferimento all'evoluzione dello studio dei sistemi viventi, dagli approcci morfologici (Goethe) alle invarianti anatomiche dei naturalisti del XIX secolo, fino alla teoria dei sistemi (Berthalanffy, Maturana e Varela), alla linguistica, alla teoria chomskiana della "grammatica generativa", della psicologia della Gestalt, al concetto di patrimonio genetico della specie di René Thom e così via [sic!]; naturalmente - prosegue Magnaghi - con l'attenzione a reinterpretare e a problematizzare l'efficacia di questi studi nel riferirli al particolarissimo sistema vivente che è il territorio, che non è una specie animale né il cervello umano studiato dalla neuroscienza" [pp. 152-153].

Ci sarebbe da ridere, se le norme di piano che dovrebbero fondare non fossero cosa comunque seria, perché gravano sugli abitanti tutti. E poi è scientificamente scorretto riderne. E tuttavia è impossibile tenere un atteggiamento scientificamente corretto, perché nulla di concreto e rigoroso vien detto né su quali siano i contenuti dei riferimenti lì buttati alla rinfusa, né in che modo siano stati interpretati, discussi, congiunti e quindi assunti in connessione al "particolarissimo sistema vivente che è il territorio". Totalmente assente è una valutazione sull'attuale grado di riconoscimento intersoggettivo goduto (o meno) da tali approcci biologico psicologico linguistici. Qual è, in altri termini, lo stato dell'arte di differenti discipline specialistiche? In che misura sono già sperimentabili - anzi, in questo caso, traducibili in norme - per di più trasferendo in altro ambito, senza dire come, tali tentativi scientifici in via di formazione e di frontiera?

Legge e piano regionali nella concretezza politica e nei limiti del diritto vigente

Ci si dovrebbe chiedere come sia possibile che la politica al governo della Regione Toscana abbia potuto concepire la redazione della legge e del piano, che a sua volta è un atto normativo, per governare il territorio sulle basi del territorialismo prima esposto. Ma la risposta è semplice se si tiene conto della loro inconsistenza tecnico scientifica e della loro natura puramente ideologica. La politica ottiene un duplice scopo di consenso: dare soddisfazione formale alle istanze di tutela del territorio e, meglio protetta da tale paravento, poggiandosi sul diritto urbanistico che resta tal quale, compiere le scelte di urbanizzazione più convenienti secondo la prassi di sempre. I vincoli paesaggistici già apposti dai poteri statali negli ultimi decenni a porzioni di territorio sono stati "vestiti", come si usa dire con una parola orrenda. Un'operazione, peraltro, già compiuta da precedenti piani regionali, ma adesso i "vestiti" delle zone vincolate vengono nuovamente cambiati. Non è certo segno di semplicità e chiarezza, né tecnica né concettuale, che tradisce l'aleatorietà della tutela paesaggistica. Per rendere la tutela più efficace è assolutamente necessario descrivere - come sostengo da tempo - i luoghi vincolati, dal momento che i decreti di vincolo dicono per lo più poco o nulla su cosa non si debba modificare (vedi F. Ventura, La tutela delle bellezze naturali e del paesaggio, in Beni culturali. Giustificazione della tutela, 2001 e F. Ventura, Statuto dei luoghi e pianificazione, 2000). Ma se la descrizione invece di attenersi allo spirito originario della tutela così come configurato nella legge originaria (1497/39), continua a variare e a estendersi nei contenuti, complicando piuttosto che semplificando le norme negative, perché altro non possono essere - ossia norme che proibiscono determinate modifiche comprensibili a chiunque - allora l'efficacia tutelante la si perde del tutto. Quanto al territorio fatto coincidere col paesaggio, le regole fuori dai luoghi vincolati non solo sono concepite con la medesima complicazione, ma hanno inoltre - e non potrebbe essere altrimenti - il carattere di puro indirizzo e non efficacia vincolistica. La tutela del paesaggio appare così formalmente arricchita ed estesa a tutto il territorio. Ma si tratta di un bluff, come quello del giocatore di poker che non avendo punti in mano rilancia. Sono certo che prima o poi gli abitanti chiederanno di vederci chiaro e il bluff verrà allo scoperto come l'esplosione della bolla immobiliare. Siamo a una tutela del patrimonio paesaggistico divenuta del tutto fittizia. E tuttavia - incredibilmente - agli occhi dei militanti della tutela la Regione Toscana si presenta all'avanguardia.

Da tempo argomento sulla necessità che ogni forma di tutela del territorio, quella del patrimonio culturale come quella dai rischi ambientali, peraltro già configurata in varie leggi statali, non sia integrata nella pianificazione. Se si vuole che a livello di territorio comunale tali tutele siano dettagliate, il ché potrebbe essere utile, queste devono concorrere a integrare a esempio il regolamento edilizio. Con i regolamenti edilizi non si distribuiscono capacità edificatorie, come con i piani, ma si stabiliscono, in autonomia e indipendenza dalle scelte particolari dei piani, le regole e i limiti edificatori ai quali piani e progetti devono sottostare. La pianificazione urbanistica è nata dall'esigenza di promuovere e ordinare la ristrutturazione delle città esistenti e la crescita urbana, favorendo la libera circolazione nel mercato del diritto di proprietà dei beni immobili e utilizzando a tal fine, in una prima fase in modo massiccio e sistematico, l'espropriazione per pubblica utilità, che implicava la redazione di un piano pubblico, di azioni e opere, da parte dell'amministrazione comunale. Una volta avviato il processo di liberalizzazione e nel momento in cui la crescita urbana ha assunto velocità ed estensione inaudite, non si è più ricorsi all'esproprio, fino a giungere, in Italia, a una legge nazionale urbanistica (1150/42). Con questa legge si è istituito il Piano regolatore generale esteso all'intero territorio comunale, credendo così di poter far fronte alla grande crescita urbana. Gli si è affidato il compito di determinare destinazioni urbanistiche per ogni proprietà privata e pubblica dei suoli. Ma le destinazioni urbanistiche non possono determinare alcun "diritto" che condizioni o da cui dipenda quello di proprietà. Ciò significa che il detentore del diritto di proprietà, pubblico o privato che sia, non è tenuto a realizzare la destinazione d'uso del bene che il piano vuole per il proprio scopo di interesse pubblico. Tuttavia, non realizzando la destinazione di piano già ne compromette la potenza e soprattutto la coerenza nel tempo e nello spazio. Al proprietario del bene è solo impedito, fin tanto che quella determinata destinazione resta in vigore, porre in essere un uso diverso da quello in atto e tale da compromettere la destinazione di piano. Ma il proprietario resta del tutto libero di vendere il bene. Già questo dovrebbe avvertire che un atto normativo, determinante destinazioni urbanistiche di beni non di proprietà dell'amministrazione comunale che lo delibera, è un piano finto, perché impotente. E tuttavia ha effetti concreti del tutto contrari allo scopo di interesse pubblico. Le destinazioni urbanistiche, infatti, incidono immediatamente sul valore di mercato dei beni, valorizzando alcuni beni relativamente ad altri. Che è esattamente la migliore condizione per compiere speculazioni sfruttando tali variazioni: comprare un terreno quando il piano in vigore lo ha svalutato per poi rivenderlo quando un nuovo atto di piano lo ha rivalutato e senza aver necessità di produrre alcunché. Uno strumento del genere, come si erano resi conto i più avvertiti già all'epoca di approvazione della legge urbanistica, può essere utilizzato solo a scopo speculativo e, infatti, è così che per lo più funziona.

È inevitabile che nella costruzione di una legge improntata - almeno in apparenza - alla forte volontà etico politica di "salvaguardare" il "patrimonio territoriale" inteso come "bene comune", ma che si affida totalmente ad atti di piano per perseguirla, confluiscano interessi completamente diversi, anzi opposti a quelli di salvaguardia. Ciò comporta la stesura di un testo eterogeneo, incoerente, privo di un'organica gerarchia di fini. E, infatti, per fare l'esempio più macroscopico, lo scopo primario costituito dal voler evitare "il nuovo consumo di suolo" risulta contraddetto dal comma 4 dell'articolo 4:"L'individuazione del perimetro del territorio urbanizzato tiene conto delle strategie di riqualificazione e rigenerazione urbana, ivi inclusi gli obiettivi di soddisfacimento del fabbisogno di edilizia residenziale pubblica, laddove ciò contribuisca a qualificare il disegno dei margini urbani".

Il provvedimento più drastico e inequivocabile - in apparenza - che la Legge prescrive al fine "di evitare il nuovo consumo di suolo" è l'individuazione del "perimetro del territorio urbanizzato". Ogni Comune deve tracciarlo redigendo il proprio nuovo Piano strutturale e seguendo i precisi criteri dettati dalle norme. Nell'intero territorio che sta fuori del perimetro urbano sono vietate nuove edificazioni residenziali. Ma ecco che il comma 4 dell'art. 4 sopra citato (così come altri simili), fa entrare in gioco non meglio precisate "strategie di riqualificazione e rigenerazione urbana" nonché "obiettivi di soddisfacimento del fabbisogno di edilizia residenziale pubblica". Queste devono essere "tenute in conto" nella "individuazione del perimetro del territorio urbanizzato". Cioè a dire che nel perimetro urbano si possono includere aree, attualmente non urbane, che il Regolamento urbanistico potrà in seguito destinare in dettaglio, particella per particella, a nuova edilizia residenziale pubblica. Infine, con un'ipocrita mascheratura dei fini, volutamente confusionaria, si afferma che lo scopo dell'edilizia residenziale pubblica lo si persegue "laddove ciò contribuisca a qualificare il disegno dei margini urbani", obiettivo quanto mai vago, equivoco e tecnicamente insignificante (ma è questo il tono e il modo di tutti gli articoli e commi della legge).

Se la Legge non fosse stata concepita per redigere piani, ma solo per redigere "regolamenti territoriali", con la stessa natura normativa dei regolamenti edilizi, non sarebbe stato possibile per chiunque proporre fini edificatori e più in generale fini che in ultimo richiedono e soprattutto stimolano e sollecitano la determinazione di nuove destinazioni urbanistiche. Sta di fatto che il primo comune, Lucca, tra i più solleciti, che ha adottato il nuovo Piano strutturale in base alla nuova Legge e al nuovo Pianto di indirizzo territoriale, ha incluso nel perimetro urbano, in base al comma 4 dell'art. 4, tra i cento e i centocinquanta ettari di suoli (a seconda di come si calcolano sulle cartografie prodotte) che allo stato avevano destinazione agricola, ossia praticamente inedificabili, anche senza la nuova Legge, che invece ne ha sollecitato la variazione. È prevedibile che di fronte alla cieca drasticità, di fatto solo apparente, del perimetro urbano, al di fuori del quale non si potrà più edificare nuova edilizia residenziale, i comuni cercheranno, sfruttando l'art. 4 comma 4 e altri simili, di formarsi una riserva di aree senza divieto, in quantità ben oltre l'attuale domanda di mercato immobiliare tuttora in grande crisi. Ma un domani quel patrimonio di fatto finanziario potrà fruttare cospicui guadagni, almeno ai più avveduti e potenti. Il modo migliore per comprendere la ratio delle scelte del Comune di Lucca è andare a vedere chi sono i proprietari delle aree incluse nel perimetro urbano e che relazioni intrattengano con i decisori politico-amministrativi regionali, provinciali e comunali. Ciò mostra tra l'altro quanto sia deleterio l'aver suddiviso la pianificazione comunale in Piano strutturale e Regolamento urbanistico. Dal momento che il Piano strutturale non conforma il diritto di proprietà, e tuttavia compie una prima distribuzione all'ingrosso dell'edificabilità determinando oligopoli di aree edificabili, non vige la norma che vieta di partecipare al voto di approvazione del piano consiglieri che abbiano parentele con i proprietari beneficiati da destinazioni che accrescono il valore degli immobili.

Un suggerimento al governo regionale

Se lo scopo primario è un severo contenimento del consumo di suolo allora è sufficiente emanare una legge di un solo articolo e a costo zero (mentre la sola convenzione universitaria col CIST, Centro Interdipartimentale di Scienze del Territorio, è costata al contribuente 1.200.000 €, oltre ad altre notevoli spese per studi specifici a società private): "Si vieta ai Comuni di apportare varianti alle destinazioni urbanistiche in vigore qualora comportino nuova edificazione". Per perseguire lo scopo dell'edilizia residenziale pubblica, senza contraddire il contenimento del consumo di suolo, la Regione deve promuoverla, dimensionandola in tempi certi, finanziandola e indirizzandola verso il recupero del patrimonio edilizio esistente, utilizzando dove occorra l'espropriazione per pubblica utilità.

Francesco Ventura

 

 

N.d.C. - Francesco Ventura, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi di Firenze, ha pubblicato tra gli altri: L'istituzione dell'urbanistica. Gli esordi italiani (Libreria Alfani Ed., 1999); Statuto dei luoghi e pianificazione (Città Studi Edizioni, 2000); Sul fondamento del progettare e l'infondatezza della norma, in P. Bottaro, et al. (a cura di), Lo spazio, il tempo e la norma (Ed. Scientifica, 2008); La verità del falso ("Area, n. 105-2009); Il monumento tra identità e rassicurazione, in G. Amendola (a cura di), Insicuri e contenti (Liguori, 2011); La tutela e il recupero dei centri storici, in L. Gaeta, et al., Governo del territorio e pianificazione spaziale (Città Studi, 2013); La progettazione del passato ed il ricordo del futuro, in A. Iacomoni (a cura di), Questioni sul recupero della città storica (Aracne, 2014).

Per Città Bene Comune ha scritto: Urbanistica: tecnica o politica? (14 febbraio 2016); Lo stato della pianificazione urbanistica. Qualche interrogativo per un dibattito (1 aprile 2016); Urbanistica: né etica, né diritto (30 giugno 2016); Più che l'etica, è la tecnica a dominare le città (16 febbraio 2017), Antifragilità (e pianificazione) in discussione (28 luglio 2017).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

01 DICEMBRE 2017

 

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
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Le letture

2015: online/pubblicazione
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2017:

C. Bertelli, Le città e il valore identitario della bellezza, commento a: M. Romano, Le belle città (Utet, 2016)

F. Indovina, Una vita da urbanista, tra cultura e politica, commento a: Memory cache (Clean, 2016)

J. Gardella, Architettura e urbanistica per fare comunità, commento a: Il Villaggio Ina-Casa di Cesate (Mimesis, 2016)

P. Bassetti, La città è morta? Il futuro oltre la metropoli, commento a: A. Balducci, V. Fedeli e F. Curci (a cura di), Oltre la metropoli (Guerini, 2017)

A. Villani, Pianificazione antifragile, una teoria fragile, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

B. Petrella, I limiti della memoria tra critica e comportamenti, commento a: A. Belli, Memory cache (Clean, 2016)

P. Pileri, La finanza etica fa bene anche alle città, commento a: A. Baranes, U. Biggeri, A. Tracanzan, C. Vago, Non con i miei soldi! (Altreconomia, 2016)

A. L. Palazzo, La forma dei luoghi nell'età dell'incertezza, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2016)

D. Patassini, Lo spazio urbano tra creatività e conoscenza, commento a: A. Cusinato, A. Philippopoulos-Mihalopoulos (a cura di), Knowledge-creating Milieus in Europe (Springer-Verlag, 2016)

F. Bottini, La città è progressista, il suburbio no, commento a: R. Cuda, D. Di Simine, A. Di Stefano, Anatomia di una grande opera (Ambiente, 2015)

E. Scandurra, Dall'Emilia il colpo di grazia all'urbanistica, commento a: I. Agostini (a cura di), Consumo di luogo (Pendragon, 2017)

M. A. Crippa, Uno scatto di "coscienza storica" per le città, commento a: G. Pertot, R. Ramella (a cura di), Milano 1946 (Silvana, 2016)

R. Gini, Progettare il paesaggio periurbano di Milano, recensione di V. Gregotti et al., Parco Agricolo Milano Sud (Maggioli, 2015)

G. Fera, Integrazione e welfare obiettivi di progetto, commento a: L. Caravaggi, C. Imbroglini, Paesaggi socialmente utili (Quodlibet, 2016)

C. Bianchetti, La ricezione è un gioco di specchi, commento a: C. Renzoni, M. C. Tosi (a cura di), Bernardo Secchi. Libri e piani (Officina, 2017)

P. Panza, L'eredità ignorata di Vittorio Ugo, replica al commento di G. Ottolini a: A. Belvedere, Quando costruiamo case... (Officina, 2015)

A. Calafati, Neo.Liberali tra società e comunità, replica al commento di M.Ponti a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

M. Ponti, Non-marxista su un dialogo tra marxisti, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

G. Semi, Tante case non fanno una città, commento a: E. Garda, M.Magosio, C. Mele, C. Ostorero, Valigie di cartone e case di cemento (Celid, 2015)

M. Aprile, Paesaggio: dal vincolo alla cura condivisa, commento a: G. Ferrara, L'architettura del paesaggio italiano (Marsilio, 2017)

S. Tedesco, La messa in forma dell'immaginario, commento a: A.Torricelli, Palermo interpretata (Lettera Ventidue, 2016)

G. Ottolini, Vittorio Ugo e il discorso dell'architettura, commento a: A. Belvedere, Quando costruiamo case, parliamo, scriviamo. Vittorio Ugo architetto (Officina, 2015)

F. Ventura, Antifragilità (e pianificazione) in discussione, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

G. Imbesi, Viaggio interno (e intorno) all'urbanistica, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2016)

D. Demetrio, Una letteratura per la cura del mondo, commento a: S. Iovino, Ecologia letteraria (Ambiente, 2017)

M. Salvati, Il mistero della bellezza delle città, commento: a M. Romano, Le belle città (Utet, 2016)

P. C. Palermo, Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

F. Indovina, Pianificazione "antifragile": problema aperto, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

F. Gastaldi, Urbanistica per distretti in crisi, commento a: A. Lanzani, C. Merlini, F. Zanfi (a cura di), Riciclare distretti industriali (Aracne, 2016)

G. Pasqui, Come parlare di urbanistica oggi, commento a: B. Bonfantini, Dentro l'urbanistica (FrancoAngeli, 2017)

G. Nebbia, Per un'economia circolare (e sovversiva?), commento a: E. Bompan, I. N. Brambilla, Che cosa è l'economia circolare (Ambiente, 2016)

E. Scandurra, La strada che parla, commento a: L. Decandia, L. Lutzoni, La strada che parla (FrancoAngeli, 2016)

V. De Lucia, Crisi dell'urbanistica, crisi di civiltà, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)

P. Barbieri, La forma della città, tra urbs e civitas, commento a: A. Clementi, Forme imminenti (LISt, 2016)

M. Bricocoli, Spazi buoni da pensare, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

S. Tagliagambe, Senso del limite e indisciplina creativa, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

J. Gardella, Disegno urbano: la lezione di Agostino Renna, commento a: R. Capozzi, P. Nunziante, C. Orfeo (a cura di), Agostino Renna. La forma della città (Clean, 2016)

G. Tagliaventi, Il marchio di fabbrica delle città italiane, commento a: F. Isman, Andare per le città ideali (il Mulino, 2016)

L. Colombo, Passato, presente e futuro dei centri storici, commento a: D. Cutolo, S. Pace (a cura di), La scoperta della città antica (Quodlibet, 2016)

F. Mancuso, Il diritto alla bellezza, riflessione a partire dai contributi di A. Villani e L. Meneghetti

F.Oliva, "Roma disfatta": può darsi, ma da prima del 2008, commento a: V. De Lucia, F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi, 2016)

S.Brenna, Roma, ennesimo caso di fallimento urbanistico, commento a: V. De Lucia e F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi 2016)

A. Calcagno Maniglio, Bellezza ed economia dei paesaggi costieri, contributo critico sul libro curato da R. Bobbio (Donzelli, 2016)

M. Ponti, Brebemi: soldi pubblici (forse) non dovuti, ma, commento a: R. Cuda, D. Di Simine e A. Di Stefano, Anatomia di una grande opera (Ambiente, 2015)

F. Ventura, Più che l'etica è la tecnica a dominare le città, commento a: D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città (Ombre corte, 2016)

P. Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)

F. Indovina, Quale urbanistica in epoca neo-liberale, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

L. Meneghetti, Discorsi di piazza e di bellezza, riflessione a partire da M. Romano e A. Villani

P. C. Palermo, Non è solo questione di principi, ma di pratiche, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

G. Consonni, Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare, commento a: A. Emiliani, Il paesaggio italiano (Minerva, 2016)

 

 

I post

L'inscindibile legame tra architettura e città, commento a: A. Ferlenga, Città e Memoria come strumenti del progetto (Marinotti, 2015)

Per una città dell'accoglienza, commento a: I. Agostini, G. Attili, L. Decandia, E. Scandurra, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017)